Il Tour è il Tour. L’assioma, il diktat, la banalità, viene pronunciata – a seconda dei casi – con trionfalismo, con rassegnazione, con fatalismo, con ironia, perfino con convinzione. Il Tour de France è la corsa a tappe più antica (anno di nascita 1903, il Giro d’Italia 1909, la Vuelta di Spagna 1935), più ricca (premi, sponsor, tv, stampa) e più importante (ma la più bella rimane il Giro, e questo lo sanno anche i corridori). Il Tour è anche la corsa con i migliori corridori al mondo, tant’è che si fa prima a dire chi stavolta non ci sarà: Vincenzo Nibali.
C’è Tour e Tour, dal Tour du Faso (Burkina Faso) al Tour of Rwanda (sempre Africa), dal Tour of Qinghai Lake (Cina) al Tour de Langkawi (Malesia), ma il Tour e basta è solo quello del Tour de France. Che è un giallo (a cominciare dalla maglia). Che è tutti i nostri mesi di luglio (compresa la paginata di Gianni Mura sulla “Repubblica”). Che è una mitologia contemporanea (parole di Roland Barthes, quello che sosteneva che pedalare su una montagna fosse un po’ come studiare teologia). Che è infinitamente più di una corsa di biciclette (che se non l’avesse detto Lance Armstrong, sette vittorie consecutive cancellate per doping, sarebbe anche una bella frase). Se in questo momento chiedessimo ad Andrea Pasqualon che cos’è il Tour de France, lui – 29 anni, veneto in una squadra belga, all’esordio in queste tre settimane di cui ogni santo giorno vale un campionato del mondo – sarebbe sopraffatto da una centrifugata di emozioni, dall’orgoglio alla tensione, dalle speranze alla pressione.
Da oggi al 23 luglio, da Dusseldorf a Parigi via Alpi, Pirenei, Massiccio Centrale e ancora Alpi, il penultimo giorno una cronometro che arriva al Velodrome di Marsiglia, l’ultimo giorno la passerella sui Campi Elisi, 3500 chilometri e passa, sconfinamenti in Germania, Lussemburgo e Belgio, sedi di tappa che suonano tradizionali, se non familiari, come Liegi, Pau, Foix e Le Puy-en-Velay, e un arrivo sull’Izoard, che è quasi una Cappella Sistina nella storia del ciclismo. Il resto (dirette anche su Rai ed Eurosport) è un romanzo popolare tutto da scoprire e godere, e goderne anche a scrivere.
Se al Giro il duello era fra il colombiano Nairo Quintana e Nibali, con l’olandese Tom Dumoulin vincitore, al Tour potrebbe essere tra il kenyano-inglese Chris Froome e lo stesso Quintana, con l’australiano (anzi, il tasmaniano) Richie Porte ad approfittare della rivalità. Fra gli sfidanti, oltre al solito Alberto Contador e ai francesi (Thibaut Pinot e Romain Bardet, un trionfo se nei primi cinque), anche il fresco campione italiano Fabio Aru. Avrebbe voluto correre il Giro, ma una caduta quasi alla vigilia lo ha trasferito sul Tour (e considerata la forma di allora, scarsa, e quella di adesso, ottima, probabilmente è stata una fortuna). A dare e fare spettacolo ci sarà Peter Sagan, campione del mondo non solo perché da due anni vince il Mondiale, ma perché da molti più anni unisce e entusiasma tutti, ma proprio tutti, anche i più scettici.
E di scetticismo il ciclismo continua a produrne di suo. Dal doping (un anabolizzante) di un quattordicenne in Sicilia alla battuta di un belga (Ian Bakelants) che, alla domanda sulle tre settimane di astinenza sessuale al Tour, ha risposto: “Porto con me dei profilattici, non si sa mai che cosa abbiano in mente le miss”. Gli organizzatori, sensibilissimi in materia, hanno preteso le scuse immediate del corridore. In tempi di dichiarazioni banali, scontate, prevedibili, noiose, rese con il pilota automatico, questa di Bakelants aveva finalmente risvegliato qualche antico prurito.
Marco Pastonesi