Pelè scuote il mondo nel 1958, ma quella è solo la scintilla di un fuoco ben più grande. Il Brasile che trionfa in Svezia, con le prodezze di questo ragazzo diciassettenne, porta con sé un carico di meraviglie che non si fermano al calcio e allo sport. E’ il segnale di un popolo che sta per imporre a tutti il suo fascino, fatto di musica, di cultura, di incanto per paesaggi splendenti, di immagini di donne bellissime su spiagge da sogno, di allegria e di malinconia allo stesso tempo, il lontano richiamo a una vita di emozioni.
Adesso che quel paese sembra scomparso, fra crisi economica, dilemmi sociali e affaristi politici che lo hanno depredato, è ancora più difficile immaginare quell’età che aveva anch’essa tanti problemi ma sembrava il preludio alla felicità. Adesso che quel ragazzo non c’è più, restano soltanto le immagini, e pur esse poche, dei suoi gol, delle sue invenzioni straordinarie su un campo di calcio che prima di allora era più povero di fantasia. Ma Pelè è stato qualcosa di più, un artista insieme a tanti altri senza pallone ma con la stessa magia dentro.
LA MUSICA DIVINA
Quello di Pelè in azione è un vero balletto, con una musica sotterranea che può essere percepita solo da chi ha un’anima per ascoltarla, con un ritmo preciso che corrisponde ai dribbling, alle finte che stordiscono l’avversario, ai tocchi e alle traiettorie impossibili che fanno sparire il pallone agli occhi di chi tenta invano di contrastarlo. Ed è proprio la musica a evocare il Brasile nel resto del mondo. Poco alla volta, nel dopoguerra, sulla scia di una canzone che appare come il vero inno nazionale, Aquarela do Brasil, composta da Ary Barroso nel 1939 e conosciuta universalmente come Brazil, le armonie di questo paese cominciano a farlo conoscere, finché, proprio nell’anno del Mondiale svedese, il 1958, c’è l’esplosione fragorosa. Antonio Carlos Jobim compone “Chega de saudade”, con le parole del poeta Vinicius de Moraes, e inventa una cadenza alla chitarra che prenderà il nome di Bossa nova, una rivoluzione nella musica. Sempre nel 1958, il regista francese Marcel Camus dirige un film col quale ambienta nel carnevale di Rio la tragedia classica di Orfeo ed Euridice. La musica è fondamentale in quest’opera ed è frutto dello stesso Jobim (A felicidade la più famosa) e di Luiz Bonfà (Manha de carnaval e Samba de Orfeu).
Fra l’altro, particolare e sorprendente collegamento col calcio, a interpretare Orfeo è il brasiliano Breno Mello, che non è un vero attore, ma un calciatore, sia pure non eccelso, riserva nella Fluminense, poi anche nel Santos, a chiudere, sia pure da molto in basso, il cerchio magico proprio con Pelè. Viene scelto, pare, solo per la sua prestanza fisica, che infatti risalta nel film, sarà poi chiamato per pochi altri. “Orfeo negro” vince la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1959, l’Oscar e il Golden Globe 1960 per il miglior film in lingua straniera. Da questo momento, musica, film e cultura brasiliani diventano una bandiera mondiale, Jobim è lanciato in un firmamento in cui continua a far splendere canzoni bellissime fra cui la famosissima Garota de Ipanema. Il Brasile, forse per la prima vera volta, appare nella mappa del mondo e il volto che lo raffigura più di tutti gli altri è quello di Pelè.
IL FILM CHE DIVENTA REALTA’
In questa travolgente cascata di sensazioni scaturite da musica e film hanno la loro grande parte anche poeti e scrittori, fra cui risaltano Mario Quintana, Machado de Assis, Carlos de Andrade, Jorge Amado, Paulo Coelho, Joao Guimaraes Rosa. Ma è ancora il cinema ad avere un posto particolare in quel magico 1958, quando un 19enne dello stato di Bahia, Glauber Rocha, prova a girare la sua prima opera, un corto muto intitolato “Cruz na Praça”, che poi andrà perduto. Ma è solo il primo vagito di una carriera che rivoluzionerà il modo di fare film, con “Il dio nero e il diavolo biondo” e soprattutto “Antonio das Mortes”, vincitore del Premio per la Miglior regia al Festival di Cannes 1968, opere che mettono in risalto le contraddizioni e i problemi del Brasile, in rappresentanza della parte più povera e sfruttata del popolo, in quegli anni sotto dittatura militare che costrinse Rocha ad andare via. In contrasto, purtroppo, con uno dei pochi aspetti negativi di Pelè, sempre accondiscendente con il potere, sportivo o politico. Così, dal 1958 al 1970, gli anni dei quattro Mondiali e dei tre successi di Pelè, è tutta la cultura brasiliana a marciare unita e vittoriosa in un sentiero magico e leggendario.
Ma è proprio il cinema, specchio dell’anima brasiliana, che si tratti di leggende rivisitate o di potenti atti d’accusa, a diventare l’ultima vera partita di Pelè, al di là dell’ultima fase di carriera nel Cosmos e della gara di addio. Il film “Fuga per la vittoria”, del regista John Houston, nel 1981, è la memoria dei suoi gol racchiusi in una sola azione, quella probabilmente più vista dagli abitanti della terra, anche più delle sue prodezze più famose, come la doppietta alla Svezia nella finale mondiale del 1958 e tante altre. Il gol che Pelè segna nella partita fra prigionieri delle Forze Alleate contro i tedeschi è diventato un gol “vero”, “reale”, il primo cui fa riferimento anche chi non è appassionato di calcio quando sente parlare di Pelè. Lui menomato per le botte dai giocatori nazisti, lui col braccio sinistro stretto al corpo per alleviare il dolore, lui che si alza in volo e segna con una favolosa rovesciata. Ed è una rovesciata vera, come nel racconto delle riprese del film, con un solo ciak a immortalarla. E anche se, guardando bene quei fotogrammi, con la visione dell’azione prima dalla tribuna e poi lo stacco per passare a quella da terra al momento del gol, c’è il piccolo dubbio che il ciak non sia stato unico, ma che ce ne siano voluti due, beh, che importanza può mai avere, il ciak è unico e il gol è vero, più vero del vero.
Peccato solo che, nella celebrazione di Pelè, proprio ricordando questo film, Rainews24 Sport abbia compiuto un grave errore. Le immagini che manda in onda alle 19.30 del 31 dicembre 2022 non sono quelle del gol di Pelè! Cosa è successo? Nel film, quando Pelè segna, c’è un ufficiale tedesco in tribuna, interpretato da Max von Sydow, che ha una visione di un gol realizzato anni prima, forse da lui stesso giovane, con una rovesciata simile a quella di Pelè, per poi tornare al presente, scattare in piedi e applaudire. Ebbene, la Rai ha fatto vedere il gol del ricordo di Max von Sydow e non quello di Pelè! Quantomeno riconoscere un volto bianco da uno nero, sarebbe il minimo. Complimentoni.
IL NERO ABBAGLIANTE
Ed è proprio il colore nero a diventare fonte di luce con Pelè. In termini scientifici, ogni superficie ha un certo colore perché, colpita dalla luce, riflette solo i raggi (sarebbe più esatto dire “le onde elettromagnetiche”) caratterizzati da quel colore. Il bianco riflette tutti i raggi, che insieme formano proprio il bianco, il nero non ne riflette neanche uno, di qui la conseguente visione che diventa anche mentale: cupa, negativa nel modo di pensare e di dire. Ribaltando la questione, si può sostenere che il nero è il colore più “ricco” di tutti perché “contiene” tutti i colori dell’universo, bisogna solo essere capaci di capire cosa il nero ha dentro di sé. Dipende da noi, non da cosa e da chi è nero. Pelè, quando appare sui campi, mette nel calcio questa consapevolezza senza ricorrere a spiegazioni da professore di scuola, dà lezioni con il pallone, cancella convinzioni razziste sui giocatori neri, dimostra che proprio loro stanno trasportando il calcio nel futuro.
Da qui scatta la litania delle meraviglie di Pelè, un rosario sportivo di giocate divine che anticipano tutto quello che verrà dopo, fra dribbling, finte, pallonetti, rovesciate e mille altre invenzioni alle quali, dopo, sarà dato un nome (tra rabona, ruleta e via così), ma che portano tutte la sua firma primordiale. L’elenco delle sue giocate è stato fatto in questi giorni di commemorazione, è inutile ripeterlo. Può diventare interessante qualche altro particolare. Per esempio, l’esaltazione di azioni meno importanti a scapito di altre migliori. E’ il caso del gol all’Italia nella finale mondiale del 1970. Viene portato come esempio della capacità di Pelè di saltare e rimanere in alto più tempo dell’avversario, facendo notare che Burgnich comincia a scendere mentre lui si ferma in aria e segna. Ma questa interpretazione è del tutto sbagliata. Sarebbe esatta se i due giocatori saltassero insieme e uno dei due rimanesse in aria più a lungo. Nella realtà, la difesa italiana è sorpresa dalla velocità con cui Rivelino, dopo una rimessa laterale, colpisce la palla a volo per il cross con destinazione Pelè. Burgnich è davanti a Pelè di quasi tre metri e deve indietreggiare per raggiungerlo, salta in direzione obliqua quando è ancora distante da lui e arriva senza più spinta nel punto dove si trova Pelè, non in grado quindi di eguagliare l’altezza a cui si trova, anzi, scende ancora più rapidamente proprio perché la forza si è esaurita. Il significato che si dà a questa azione è del tutto diverso dalla realtà se non nel punto in cui si mette in risalto la capacità di Pelè di andare così in alto. Ma questo è un gol “normale” di Pelè, non la grande prodezza di cui si parla tanto. Ed è offensivo nei riguardi di Burgnich sostenere che lui va giù prima di Pelè, perché non sono partiti in piedi dallo stesso punto. Se proprio si vuole citare una azione che esalti la capacità di volare, bisogna andare a Brasile-Inghilterra, sempre nel Mondiale 1970, e non per un gol. Pelè colpisce di testa più in alto e da una distanza maggiore rispetto al gol all’Italia, ma in maniera più potente, col difensore inglese più vicino a lui di quanto lo sia stato Burgnich, e la palla sembra già dentro quando il portiere Banks fa una parata fenomenale, deviazione in angolo. Molti sostengono sia la più bella parata della storia del calcio e probabilmente è così. Forse, l’unica che le possa stare all’altezza è quella di Zoff, allora portiere del Napoli in trasferta a Firenze il 18 gennaio di quello stesso anno, su colpo di testa di Ferrante, identica ma sull’altro palo. E Pelè esalta Banks: “Sembrava un salmone che risale la corrente”.
Altri due gol mancati, anche più di quelli segnati, possono chiudere il discorso sulle doti di Pelè, entrambi nel primo Mondiale messicano. Nella gara con la Cecoslovacchia, nel girone, Pelè si trova nel cerchio di metà campo, nella parte brasiliana, a 6-7 metri dalla linea centrale e un po’ più di 50 dalla porta, ma tenta comunque il gol, con un tiro che sfiora il palo. Il bello è che qualche suo compagno (era il Brasile dei cinque numeri 10, campioni come Tostao, Gerson, Rivelino e Jairzinho) lo rimprovera per aver osato tanto invece di costruire l’azione d’attacco. E lui che, umilmente, accetta il rimprovero. E infine il capolavoro (mancato? non lo definirei così) contro l’Uruguay, più volte ripresentato in Tv in questi giorni. Tostao gli lancia la palla in diagonale, il portiere Mazurkiewicz esce al limite dell’area e sembra in vantaggio, Pelè fa una finta e fa scorrere il pallone e inganna Mazurkiewicz che non lo intercetta, Pelè fa il giro attorno a lui, va a riprendere il pallone dall’altra parte e tira in diagonale nell’angolo opposto, evitando così l’intervento di un difensore. Uno zig-zag da sogno, ma il pallone sfiora il palo e va fuori. E’ il gol mancato più famoso, ma è celebrato più di uno realizzato. E chissenefrega se non è stato gol. E’ forse l’espressione massima del calcio che fa divertire, quello della gioia per la gioia, senza un fine materiale. E’ il gol che diventa meno importante della finta che inganna tutti, quella finta che è una espressione di magia pura. E’ l’imperfezione che diventa più perfetta della perfezione stessa.
IL RICORDO E LA SPERANZA
Ora restano solo i ricordi, le commemorazioni, i dibattiti. Pelè il migliore di sempre? Chi può essere il rivale, o i rivali, in questa sfida? Guardando oltre i numeri, le vittorie, i riconoscimenti ufficiali, c’è un significato più profondo da cercare nella vita di un campione: cosa è stato capace di portare di nuovo al mondo, cosa ha cambiato, se non nelle cose concrete, almeno nella percezione che fino a lui si aveva dello sport e della vita. In questa visione, credo che siano soltanto due le figure che si innalzano al di sopra di tutti: Pelè e Maradona. Dal punto di vista tecnico, Pelè è stato senza dubbio il più completo, entrambi i piedi allo stesso livello, grande elevazione e micidiale colpo di testa. Ha regalato ai giocatori neri il riconoscimento di campioni e il rispetto. Maradona aveva un solo piede, il sinistro, partendo da una teorica posizione svantaggiata, ma è riuscito a fare le stesse cose, e anche qualche gemma non ancora scoperta, superando perciò difficoltà maggiori. Ha regalato ai poveri e ai diseredati di tutto il mondo la speranza di vincere e la dignità. Tutti e due hanno mostrato qualcosa che nessuno di tutti gli altri pretendenti al titolo di migliore, da Di Stefano a Krujff, a Messi, ha avuto: la genialità e la sfrenata fantasia che hanno permesso loro di inventare prodezze ineguagliate, traiettorie che sfidano le leggi fisiche universali, di volare senza ali, di ispirare ciò che nessuno ardirebbe immaginare. Chiunque scelga l’uno o l’altro non potrà sbagliare.
Nel momento dell’addio a Pelè, oltre al ricordo, cosa può restare? Forse la risposta è nel finale di “Orfeo negro”, il film che simbolicamente ha accompagnato i primi passi della leggenda brasiliana. Euridice e Orfeo muoiono. Un bimbo imbraccia una chitarra, quasi un richiamo alla lira con cui Orfeo suonò la canzone straziante che convinse Ade, dio dei morti, a far tornare in vita sua moglie. Sullo sfondo il mare di Rio. Con altri due bambini, comincia a suonare e cantare il “Samba de Orfeu”. C’è un nuovo sorriso, c’è una vita che riprende. Pelè adesso è un fantasma amico che, segretamente, ispirerà chi sarà degno di giocare a pallone come è stato capace lui. Un giorno, chissà, arriverà un altro. Non sarà come lui, ma sarà come lui.