Sir Bradley Wiggins – cinque ori olimpici, sei ori mondiali su pista e uno a cronometro, un Tour de France e il record dell’ora – sostiene che a mancargli non è il ciclismo dei grandi eventi, appuntamenti, traguardi, ma quello delle corse piccole, semplici, modeste. Dopo aver scalato il mondo a forza di gambe, adesso il Baronetto prova a farlo a forza di braccia: si sta preparando all’Olimpiade di Tokyo, nel 2020, nel canottaggio. Ma non ha mai smesso di parlare con il cuore.
Il ciclismo – sosteneva Mario Fossati – è uno sport nato povero per i poveri. Come il pugilato. Uno sport per la gente, con la gente, tra le gente. Uno sport che, rispetto a tutti gli altri, gode di un enorme vantaggio: non abita “in una scatola magica” (il copyright è di Claudio Gregori), come quella di uno stadio, di un palazzetto, di un diamante, di una pedana, di una palestra, ma vive sulla strada. E la strada è il suo destino e il suo teatro, sempre diverso, sempre diverso perfino quando il percorso è identico, perché a modificarlo è il tempo, la temperatura, soprattutto la trama e i protagonisti, cioè quell’avventura che da sempre accompagna il ciclismo e lo sublima a romanzo, da una caduta a una foratura, da una fuga a un abbandono, da un passaggio a livello chiuso fino al passaggio di un gregge o alla ribellione di un cane o all’invasione di uno spettatore. Perché il ciclismo – questa la sua forza, ma anche la sua debolezza – è scoperto, è fragile, a volte non si può neanche proteggere e difendere. Basterebbe un niente per trasformare la felicità in disgrazia, la festa in ecatombe. Ed è forse per questo che qui nel ciclismo, più che altrove, si invoca la presenza se non di Dio, almeno del dio del ciclismo, l’unico capace di rendere immuni i corridori da quei grovigli laocoontici che, in certe volate, sembrerebbero inevitabili.
Negli anni, anche il ciclismo è cambiato. Fossati, grande firma del ciclismo (e del pugilato, e anche di altro) per “La Gazzetta dello Sport”, “Il Giorno” e infine “la Repubblica”, smise di frequentare corse e corridori quando si accorse che, in sala-stampa, i colleghi viaggiavano a Coca-Cola. Se oggi partecipasse da inviato a una tappa del Tour de France, ne rimarrebbe inorridito: corridori blindati, corsa inavvicinabile, interviste ridotte a domande contate, invasione di “markettari” (quelli del marketing), addetti-stampa che non aiutano e neppure filtrano ma bloccano e impediscono, fino a quel capolavoro di diplomazia che si realizzò quando il vincitore di una tappa venne finalmente introdotto ai giornalisti della carta stampata con l’annuncio “ultime due domande”. Gianni Mura, che per “la Repubblica” segue ancora il Tour, continua a sfidare i tempi con la sua vecchia e musicale Olivetti Lettera 22, e per questo viene fotografato dai colleghi come si fa con la stessa suggestione dedicata a un aborigeno immortalato in qualche remota zona australe.
Ma Wiggins, e anche Fossati e Mura, se frequentassero l’altro ciclismo, ne sarebbero felici. Perché esiste ancora un calendario di corse “d’altri tempi”, “vecchia maniera”, novecentesche, corse dove è ancora possibile aggirarsi fra pullman e ammiraglie, dove si può parlare con scalatori e velocisti, scattare “selfie” con passisti e “finisseur”, farsi firmare cartoline da capitani e gregari, dove si può chiedere e forse ottenere una borraccia, dove si può chiedere anche un’intervista senza passare dagli addetti-stampa, dove i corridori si cambiano in macchina, si fanno massaggiare seduti su una panchina, baciano le loro donne prima del via. Dove il ciclismo si può ancora respirare (il profumo dell’olio scaldamuscoli), sfiorare (telai e tubolari), accarezzare (passioni e sogni). Dal Trofeo Laigueglia, che apre la stagione italiana, al Giro di Lombardia, che la chiude, dal Giro d’Italia Under 23, che propone i nuovi talenti, al Giro dell’Appennino, che ripropone vecchie salite.
Reduce dal Tour of Antalya, quattro tappe turche, ho riassaporato quel ciclismo di cui Fossati è stato un valoroso interprete. Certo: lui scriveva di Coppi e Koblet, di Gaul e Bahamontes, di Nencini e Anquetil, io di Moschetti e Mareczko, di Habtom e Zardini, di Coledan e Fortin. Ma sono sempre storie. Storie di sport. Niente tappeti rossi, ma manti stradali. E mantelli (mantelline, per la verità) magici.
Marco Pastonesi