C’è un libro che spiega tutto, il suo titolo è “Sulle ali degli amici”. Davvero: bisogna saper volare per capire certe cose, e ci sono attimi in cui, sospeso sul mondo, capisci tutto. Di solito lo si fa con la mente, Gimbo lo fa con la schiena sopra l’asticella. In quel perfetto sincrono in cui il significato dell’esistenza ti è molto più chiaro.
No, non è vincere una medaglia: è come lo fai. Se sai dividere, sai anche dominare gli istinti più adulti che noi umani ci portiamo dietro. È un po’ come tornare bambini, come quando ti spartivi le caramelle o le figurine, come quando un giudice ti ferma nel momento in cui stai esplodere di gioia dicendoti «aspetta, aspetta: se volete c’è lo spareggio». E il tuo amico Mutaz risponde: «Non possiamo avere un oro a testa?». Ecco: in quella fotografia c’è tutto un sentimento, per cui l’abbraccio immediatamente successivo alla risposta affermativa diventa una conseguenza. Amici, per sempre.
Amico, Gianmarco Tamberi. Di Mutaz Essa Barshim, «il più grande saltatore in alto di sempre – dice Gimbo -, Uno che quando l’ho conosciuto, ho subito pensato: ma questo è matto!». Quel matto è stata anche la persona che gli è stata più vicina, e a cui è stato più vicino. E la storia è nota: il maledetto ultimo meeting di Montecarlo 2016, giusto prima di partire per Rio da favorito. Salta la caviglia e tutti i sogni. Due anni dopo la storia si ripete, ma il tendine questa volta è di Barshim. Si sono consolati, si sono curati, si sono spronati, perché essere rivali a volte vuole dire anche non poter fare a meno l’uno dell’altro. Uniti per sempre ora, in quel secondo in cui si sono guardati negli occhi e già sapevano che il destino aveva scelto per loro. Insieme, sul podio, con l’oro, amici.
Amico del mondo, l’azzurro volante. Lo si sentiva nell’unico spicchio pieno dello stadio di Tokyo, che a ogni suo salto lo accompagnava con l’applauso ritmato, e a ogni volo esultava felice. Un tifo a senso unico, quello degli atleti dei Giochi, e quando lui ha tirato fuori il gambaletto che 5 anni fa stringeva la sua caviglia e il suo cuore, quel popolo ha sorriso sapendo che non poteva finire diversamente. Sopra era scritto «Road to Tokyo». E diciamolo: era proprio scritto.
Amico nostro allora, Gianmarco. Anzi, Gimbo. Come si fa a non voler bene a uno così. Ridevamo con lui, e non certo di lui, quando si presentava ai salti con mezza barba sì e mezza no. O con quella chioma biondo platino che ce lo faceva sembrare ancora più simpatico. Abbiamo sofferto con lui, come se il dolore fosse nella nostra carne. E abbiamo tremato con lui, quando negli ultimi mesi qualcosa stava andando storto: «Dài Gimbo, ancora uno sforzo». Abbiamo saltato con lui, ieri. E provate a dire che non abbiamo pianto, con lui. E per lui.
Per l’amico della porta accanto, tenero con la sua Chiara, così come con tutti. Mai fuori posto, sempre positivo, anche nella tormenta. E quando Barshim alla fine dice ridendo «due è meglio di uno!», è lì che comprendi il senso di Gimbo per l’amicizia: «È un giorno che non dimenticherò, che spero di poter raccontare in futuro ai miei figli, se li avrò. E se non li avrò, lo racconterò ai figli di Mutaz…». È proprio in quel momento che anche a noi sembrava di volare.
Marco Lombardo
(pubblicato su Il Giornale di oggi)