Dimissioni, queste sconosciute. Una volta si preavvisavano, si minacciavano, si presentavano pure, ma spesso erano rifiutate e quindi, alla fin fine, venivano quasi sempre ritirate. Oggi siamo più concreti, saltiamo tutta questa inutile trafila e, seguendo i dettami di Checco Zalone in Quo vado?, ci teniamo ben stretto il posto fisso. Qualsiasi cosa succeda, qualsiasi sia l’accusa, qualsiasi sia la situazione, qualsiasi sia la risposta dello specchio quando ci facciamo la barba la mattina. Figurarsi se lo stipendio è ricchissimo come quello di un eletto del calcio italiano.
Come Eusebio Di Francesco, allenatore della AS Roma in crisi di identità e di risultati, al punto di perdere addirittura per 7-1 in coppa Italia a Firenze. Non può essere tutta colpa sua, siamo d’accordo, così come non è tutta colpa del collega Maurizio Sarri, che guadagna il doppio al Chelsea 6.4 milioni di euro contro i 3 del giallorosso, ma proprio non riesce a scuotere i suoi e perde 4-0 col Bornemouth. Dimissioni: e perché? “Chi va in campo sono i giocatori che devono prendersi le loro responsabilità”, è la risposta più comune. “Io ho un contratto e intendo rispettarlo, semmai sarà la società a decidere altrimenti”, segue quasi sempre a ruota.
Perché i contratti sono sempre pluriennali e blindati, con mille clausole e clausolette, fra cui quella ormai automatica del pagamento di tutti gli emolumenti in caso di cessazione unilaterale del rapporto. Non esiste giusta causa. Come ben sa il Manchester United che, per licenziare José Mourinho che aveva contro lo spogliatoio guidato da Pogba, gli ha dovuto versare 26.7 milioni euro. E perché è diventato di moda allargare subito a macchia d’olio il discorso, così da annacquarlo e confondere dai problemi specifici. Perché dovrei dimettermi io se non s’è dimesso quell’altro?
Fosse vissuto vent’anni prima, dopo la mancata qualificazione ai Mondiali, il ct della nazionale Gian Piero Ventura si sarebbe dimesso “a furor di popolo”, usando una terminologia oggi vetusta. Perché il popolo italiano, ormai, non protesta più. Guarda, ascolta, sospira, chiacchiera, chiacchera tanto soprattutto sul web, ma tira avanti. Sapendo che, dietro le quinte, il personaggio in questione non lascia la poltrona, ma fa melina, chiede tempo, finché non si fa cacciare, per ottenere una mancia. Come i 700 mila euro che la Figc ha concesso a Ventura. Come da contratto. Del resto, che colpa ne ha lui se la serie A è snaturata dagli stranieri e questa generazione di calciatori italici non è più quella dei fenomeni? Salvo poi presentare lui le dimissioni, dal Chievo, dopo tre sconfitte e un pareggio. Dimissioni inattese, e quindi congelate dalla dirigenza, ma confermate. Bravo!
Altri esempi? A parte la madre di tutte le dimissioni, di Dino Zoff, un uomo tutto d’un pezzo, che, il 4 luglio del 2000, reagì all’ennesimo attacco di Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio, a proposito della conduzione della partita persa contro la Francia, nella finale dei Campionati Europei: “Non prendo lezioni di dignità dal signor Berlusconi. Prendere questa decisione è molto difficile e so che probabilmente mi costerà parecchio. So come reagiranno e cosa scriveranno i fedeli collaboratori del signor Berlusconi. Forse non ne uscirò bene, ma non potevo fare altro”.
Le critiche al suo ingaggio milionario, proprio in un momento in cui era stato posto un tetto agli stipendi dei manager pubblici, spinsero Cesare Prandelli a lasciare la nazionale nel 2014: “Le mie dimissioni sono irrevocabili: da quando ho firmato il rinnovo, sono partiti attacchi come fossimo un partito politico. Non rubo i soldi dei contribuenti, non ho mai rubato e pago regolarmente le tasse. Se sbaglio tecnicamente, invece, è un discorso diverso e mi prendo tutte le responsabilità”.
Corrado Orrico fece scalpore nella stagione 1991-1992 quando lasciò l’Inter senza riuscire a raccogliere la difficile eredità di Giovanni Trapattoni. Disse: “Non mi importa di essere ricordato come quello che ha fallito. Solo gli stupidi non sbagliano mai. Il mio è un gesto di coerenza: l’allenatore è un capo, se non riesce a far funzionare la squadra, giusto che se ne vada. In 26 anni che alleno non sono mai stato cacciato, me ne sono sempre andato io”. Poi ci ha ripensato: “Mi ha fregato l’estetica, né la teoria né la pratica. Pellegrini era un presidente elegante, misurato nel linguaggio e comprensivo nei modi. Avevo intuito lo scetticismo dell’ambiente e allora ho tolto il disturbo”.
Le dimissioni di Zeman non si contano e fanno testo solo relativamente, visto il personaggio sui generis. Così come quelle dell’appassionato e sfortunato Emiliano Mondonico, da Cremonese e Fiorentina. E anche quelle di Luciano Spalletti che, nel 2009, per dissapori con la società, lasciò la Roma, dopo 4 anni, con un contratto assicurato di altre 2 stagioni. Per poi rasentare le dimissioni ancora con la Roma e con l’Inter.
Quelle di Edy Reja dalla Lazio per i ripetuti dissapori col presidente Lotito, entrano nel guinness dei primati, perché due volte presentate e due volte respinte. Così come sono stati due i volontari addii di Marcello Lippi dalla panchina della Juventus: la prima, di orgoglio, nel 1999, dopo la sconfitta con il Parma nel chiudere un ciclo di dieci anni, la seconda di stanchezza, nel 2004. Due anni fa fece scalpore l’addio di Davide Nicola dal Crotone, forse per ingerenze del presidente, Gianni Vrenna: un fulmine a ciel sereno che sorprese per primi i giocatori.
Oggi alla Roma, Di Francesco si assume tutte le responsabilità della figuraccia di Firenze ma non si dimette, il 20 febbraio 2011, dopo la sconfitta per 4-3 col Genoa, con la Roma che aveva chiuso il primo tempo per 3-0, Claudio Ranieri lasciò la panchina.
*articolo ripreso da agi.it