Se la vita è uno spettacolo, la morte è il suo sipario. Quando gli ultimi applausi finiscono e l’ultimo inchino è fatto, il sipario scende – pesante, maestoso, intransigente. Prima o poi il sipario si mette tra il pubblico e la scena, ma il fatto che non vediamo più il protagonista non significa che lui non esista più. Le belle opere teatrali continuano a vivere con infiniti bis in ognuno degli spettatori che escono silenziosamente dal teatro. Oggi tutto il mondo cerca di assimilare una tragedia terrificante. Di trovare una logica e un seguito nell’inesorabile, impietoso destino della vita spezzata in anticipo. Forse l’unico modo per farlo è dare uno sguardo lì, dietro il sipario….
La prima volta che ho visto Kobe Bryant dal vivo lui era ancora un teenager. Credo che la partita fosse contro Cleveland… Non ne sono certo. Lui sembrava magrolino e la sua testa era circondata da una nuvola di riccioli. La prima cosa che ho notato in quella occasione era il modo in cui si muoveva. Nella sua andatura molleggiata si notava una sicurezza quasi arrogante. Quando la palla capitava fra le sue mani, sembrava che lui si trasformasse in un gatto – il suo corpo si piegava in basso verso il parquet alla ricerca del momento e del posto migliori per distendersi… come un’esplosione. E quando questo accadeva, non esisteva alcuna forza al mondo che lo potesse fermare. Era chiaro. No, era chiarissimo: io stavo osservando l’inizio di una carriera incredibile.
La seconda cosa che ho notato era che a Kobe non piaceva passare il pallone. E non comunicava con i suoi compagni di squadra, né dentro, né fuori del campo. E… non sorrideva mai. Sì, Kobe era un virtuoso, era un mago con la palla, Kobe era nato per il basket, ma c’era qualcosa in lui che mi rendeva inquieto. Buio. Oppure angoscia. O dolore. Qualcosa che non gli permetteva di confidarsi con nessuno.
Negli anni successivi Kobe ha conquistato l’NBA. Faceva canestri quando e come voleva. Inventava cose mai viste. Una delle sue azioni che mi piace di più è quella contro la squadra di Washington. L’ho vista mille volte. Bryant parte con la palla dalla linea dei tre punti, lascia impietrito il difensore che lo marca con un incredibile dribbling incrociato, irrompe prepotentemente verso il canestro dove lo aspettano due enormi avversari e prende il volo. E continua a volare. E dopo…. continua a volare ancora. In alto, sopra le due squadre, sopra i comuni mortali, sopra ogni logica, sopra la terra e ignorando la legge della gravità terrestre. È un vero miracolo che non si rompa la testa contro il tabellone che si avvicina a velocità assurda al suo viso. Quando Kobe finisce il proprio volo con un’incredibile schiacciata anche gli arbitri rimangono immobili e con la bocca aperta, in ammirazione.
Per tutti l’NBA è la lega degli extraterrestri. E allora da dove è venuto Kobe? A quale Universo parallelo dovevamo questa anomalia? Kobe era una tempesta. Era paragonato a Jordan. Milioni di fans lo veneravano. Nello stesso tempo… lui giocava senza divertimento, con una rabbia che forse era figlia del suo innato perfezionismo e la voglia di vincere a ogni costo. Non si confidava con nessuno. Stava diventando un solitario nella propria squadra. La sua parte oscura stava prendendo il sopravvento. Spesso cercava il canestro anche quando aveva davanti due o addirittura tre difensori avversari, invece di fare un passaggio al compagno libero sotto canestro. Le partite dei Lakers si trasformarono in una serie di infiniti monologhi. C’era uno Stradivari, ma mancava la sinfonia. Gli altri giocatori lo evitavano. I suoi allenatori lo consideravano ingestibile. Era un egoista, uno difficile, individualista, irascibile. Per tutti era ormai “la primadonna”. Arrivarono anche gli scandali fuori campo. La causa in Colorado. I tradimenti. Le accuse. Il conflitto con i genitori. Kobe iniziava ad affondare in una palude, tirato verso il fondo dalla natura contradditoria della sua genialità. In questo preciso momento il giocatore ha compiuto la più bella e inaspettata delle interpretazioni e con le unghie e con i denti ha tracciato la strada nella giungla verso… se stesso. Non è facile riscoprirsi a 30 anni. Riconoscere i propri errori. Riscrivere la Metamorfosi di Kafka al contrario. Ma, come sappiamo, Kobe era il nemico numero uno della legge di gravità, anche della propria. Niente sarebbe stato come prima.
Il cambiamento fu drastico e quasi immediato. E venne subito notato in campo. La palla non affondava più fra le sue mani come nella Fossa delle Marianne – Kobe passava la palla! Costantemente e prontamente. La tattica impostata dalla squadra non si interrompeva più a metà per i suoi imprevedibili tiri. Il suo viso sempre più spesso era illuminato da un grande, scintillante sorriso. Lui si muoveva sul campo con una leggerezza particolare. Ora la rabbia non c’era più. C’era il divertimento. Anzi, l’euforia. Kobe non giocava più per se stesso, giocava per il gioco – quel gioco centenario e il suo impegno costante di scoprire la perfezione nello sforzo sincronizzato di un quintetto ideale. Kobe ha sempre amato il basket alla follia. E ora il basket gli rispondeva nella stessa maniera.
E non era tutto. La trasformazione di Kobe era continua e si espandeva. Seguivamo al rallentatore uno dopo l’altro i sintomi di questa metamorfosi in campo e fuori. Ho notato che alle conferenze stampa post gara lui si presentava sempre con la dolcissima figlia Gigi sulle ginocchia. Il sorriso non lo abbandonava mai. Rispondeva tranquillamente e amichevolmente anche alle domande scomode dei giornalisti. Ha spalancato la porta per dare la possibilità a tutto il mondo finalmente di scoprire il suo intelletto e la sua erudizione. E si scopri che il carattere di Kobe è anni luce lontano dal cliché dello sportivo limitato. Bryant aveva un’affinità speciale per la cultura e la mentalità europee, frutto del fatto di essere cresciuto in Italia. Amava l’arte, la letteratura, la moda, il calcio. Era un poliglotta e rilasciava interviste in perfetto italiano e spagnolo. Da quel momento ha abbandonato i night club e le ammiratrici poco raccomandabili e si è dedicato completamente alla famiglia.
Nel frattempo Kobe vinceva tutto – titoli NBA, campionati mondiali, ori olimpici, trofei di miglior giocatore della Lega e ancora, e ancora. Ora, dopo ogni successo i suoi compagni lo portavano in trionfo. Volevano essere vicino a lui. Aiutarlo e cercare aiuto da parte sua. Lo amavano perfino i suoi avversari. Kobe ora non accumulava più solo punti e record. Era diventato un mito.
Lui sapeva perfettamente che il tempo è invincibile e allora decise che, per poter continuare a giocare ad altissimi livelli, avrebbe dovuto trattare il proprio corpo come un tempio. Divenne pedante negli allenamenti e nell’alimentazione. Era curioso, cercava, chiedeva. Preparava con una precisione da orologio ogni fibra dei propri muscoli. Occupava la propria mente con la meditazione e il proprio corpo con la pliometria. Leggeva e si informava sulle ultime tendenze nella materia del recupero funzionale. Dopo l’infortunio al ginocchio, è andato a Dusseldorf per la terapia con le cellule staminali. Kobe continuava a riscoprirsi. Di nuovo e di nuovo. Come prima ignorava la presenza della forza di gravità, ma voleva conservare a più lungo possibile le proprie articolazioni. E ha dedicato mesi a migliorare il proprio tiro. Prima delle partite andava sul campo con due ore di anticipo, per tirare. Ed è diventato il miglior tiratore della Lega. Faceva vincere delle gare all’ultimo secondo con tiri da posizioni improbabili. Anche dopo i suoi colpi più strampalati, la retina sentiva che c’era un pallone in arrivo. Ma non bastava – un’ estate, mentre gli altri giocatori sorseggiavano i loro daiquiri alle Hawaii, Kobe ha ingaggiato il famoso centro Hakeem Olajuwon per farsi insegnare come si gioca spalle al canestro. Durante la stagione successiva Kobe ha incenerito la lega con delle finte magiche, estratte direttamente dal repertorio di Hakeem.
Quando ha subito la rottura del tendine d’Achille, Kobe non si è demoralizzato. Lui sapeva che semplicemente era arrivato il momento di riscoprire nuovamente se stesso. E l’ha fatto con uno sforzo sovrumano, con costanza e intelligenza. Quando è tornato sul campo era di nuovo inarrestabile. Il suo profilo di giocatore contiene tanti successi, tuttavia lui ha rinunciato a rincorrere il record del maggior numero di punti nella storia della Lega, appartenente a Kareem Abdul Jabbar. Il nuovo Kobe non ne aveva bisogno. Lui aveva già trovato il proprio posto fra le icone nella basilica del basket. Voleva rinunciare al gioco prima che il gioco rinunciasse a lui. Voleva un addio dignitoso. Kobe ha giocato la sua ultima partita il 13 aprile 2016. In quell’incontro, contro gli Utah Jazz, il 37-enne Bryant ha segnato 60 incredibili punti e ha dato la vittoria ai suoi Lakers.
Al contrario di tante ex stelle, Kobe non ha provato un ritorno. Aveva chiuso quella porta per sempre. Era di nuovo arrivato il tempo di riscoprirsi. Negli ultimi cinque anni Bryant è diventato un businessman di successo, un filantropo, investitore, magnate dei media, docente, tattico del basket e un padre devoto alle figlie. La sua conoscenza in tutti questi campi era quasi enciclopedica.
Ecco come era l’uomo Kobe Bryant, quello dietro il sipario. Forse ora non possiamo più vederlo faccia a faccia, ma questo non significa che lui non esista. E quando uscite silenziosi dal teatro, non dimenticate di portare con voi il racconto. Il racconto di una vita breve, ma meravigliosa. La sua messa in scena continua. Dentro ci sono avventure, eroismo, delusioni, fama e primati, ma invocare i bis è la grande lezione che porta con sé. La lezione secondo cui non è mai tardi per riscoprire se stesso. Mai! Kobe Bryant l’ha fatto come giocatore, compagno di squadra, professionista, marito, genitore e soprattutto come uomo. Ed ecco: oggi la sua abituale vittima – la forza di gravità – ingenuamente crede di aver avuto la meglio e di averlo strappato per sempre a questo mondo. La verità è che lui è di nuovo oltre, sopra l’enorme campo caotico, sopra ogni logica, sopra le aspettative, sopra di noi, i comuni mortali. Lassù, alto alto… con la piccola Gigi sulle ginocchia.
Questo doveva essere l’ultimo inchino, ma il ricordo di Kobe mi ha chiesto inaspettatamente di concludere con le sue stesse parole. Quelle parole per le quali ha vinto il premio “Oscar”. Kobe, sapete, ha scritto una lettera d’addio al basket prima dell’inizio della sua ultima stagione nell’NBA. Un’altra trasformazione inattesa e sincera, questa volta in scrittore. Le sue parole sono diventate un film. Il film ha vinto l’Oscar. Oggi la sua lettera al basket sembra indirizzata a tutti noi, che abbiamo scelto di portare in noi il bellissimo spettacolo che ci ha offerto.
Ivo Ivanov (traduzione di Rumiama Krasteva)
- Giornalista bulgaro che vive in Kansas, autore del libro “La curva della felicità”, sotto titolo “Sullo sport, l’universo e tutto il resto”