Nemmeno nei sogni più sfrenati gli organizzatori di Miami avrebbero sperato in tanta manna da parte dei giocatori di casa: John Isner e Sloane Stephens che si aggiudicano il singolare e i gemelli Bryan il doppio. La storia nella storia è quella del bravo ragazzo di Greensboro, North Carolina, un pivot di 2,08 strappato al basket e convertito al tennis dai miracoli dell’odierna preparazione fisica, fino al primo trionfo in un torneo Masters 1000 alla soglia dei 33 anni (da compiere il 26 aprile) e al ritorno al numero 9 del mondo (da 17), come nell’aprile del 2012. Il gigante dalla faccia buona è uno dolce di natura, a dispetto di servizio e dritto da paura. Educatissimo, sportivissimo, attaccassimo alla mamma (che chiama tutti i giorni), disposto ad abbandonare anche il tennis per seguirla durante la sua lotta contro il cancro e poi primo finanziatore dell’ospedale che l’ha salvata, legatissimo agli altri yankees con la racchetta, da James Blakee (attuale direttore del torneo di Miami…) ai Bryan, da Sam Querrey a Jack Sock (con cui fa coppia in doppio ed ha appena vinto Indian Wells), ogni tanto si risveglia ed è capace di qualsiasi impresa. Contravvenendo a qualsiasi regola, a cominciare dalla naturale predisposizione per il cemento, perché ha dimostrato che può giocare benissimo anche sulla terra rossa. Così come può uscire dal letargo di una stagione-no che aveva cominciato perdendo subito ad Auckland contro Chung, a Melbourne contro Ebden, a New York contro Albot, al secondo turno di Delray Beach contro Gojowczyk, ancora all’esordio ad Acapulco contro Harrison e a Indian Wells contro Monfils, scampando solo al tie-break del quinto set alla beffa contro Lajovic in Coppa Davis. E presentandosi a Miami con un tragico bilancio stagionale di 1-6 sull’Atp Tour.
Qualcuno ironizzava che non avesse ancora smaltito i festeggiamenti delle favolose nozze di dicembre con la sua Madison. Lui ha giurato di essersi allenato abbastanza e, invece di andare dallo psicologo, s’è fatto una bella chiacchierata con coach David Macpherson, la sera, davanti a una birra, ed è tornato al passato. “Dovevo andare in campo, fresco, libero mentalmente. Se rimango sciolto, gioco bene”. Parole semplici e lineari, come lui. Come quel servizio che gli ha fruttato finora 9968 ace, a un passo dalla soglia dei 10mila dove sono arrivati soltanto Ivanisevic, Karlovic e Federer. Prima palla-super, che gli garantisce il 78% di punti, ma anche seconda-monstre, con punte a 253 all’ora, dietro solo i picchi estemporanei di Groth (263 km) e Olivetti (257). Servizio che gli ha assicurato un posto nella storia, vincendo il match più lungo di sempre, 11 ore 5 minuti in tre giorni, a Wimbledon 2010 contro Mahut, fino all’indimenticabile 70-68 al quinto set. Servizio che demoralizza i più.
L’ultima vittima Doc risponde al nome di Sascha Zverev che, dopo aver subito l’ace numero 18 – 79 nel torneo – nella finale di Miami, ha fracassato in terra la racchetta come estremo sintomo di frustrazione di un ragazzo-precoce con le stimmate del futuro numero 1 del mondo e la presunzione di tanti talenti persi per strada. Dimenticava il viziato tedesco di ceppo russo che Long John aveva appena congelato la risposta del “nuovo Djokovic”, Chung (il primo campione delle Next Gen ATP Finals di Milano, fermato a Melbourne e Indian Wells solo da Federer), aveva irretito il picchiatore selvaggio Cilic (numero 2 del torneo), e aveva scoraggiato il picchiatore più potente, Del Potro (neo campione di Indian Wells, in serie positiva da 15 match, col record stagionale di 21 successi).
Isner era caldo, Isner, insieme alla condizione fisica e quindi alla capacità di spostare con agilità le sue lunghe leve, aveva ritrovato il suo gioco. “Devo ringraziare il doppio che ho vinto in California: mi ha rimesso nella modalità match, ho ritrovato la risposta, ho giocato sotto pressione e le cose si sono appena sbloccate. Tutte le volte che ho giocato bene in doppio sono poi andato bene anche in singolare, infatti i colpi si sono rimessi a posto. E io so che, se faccio le cose giuste, non conta chi è l’avversario, sono molto duro da battere”.
Meglio dei tre sfortunati precedenti nelle finali Masters 1000: Indian Wells 2012, Cincinnati 2013 e Parigi 2016. Sulla scia di una crescita costante, con il miglior rendimento nelle semifinali Masters 1000 degli ultimi dodici mesi: Roma, Cincinnati e Parigi 2017, Miami 2018. “Sto giocando il miglior tennis da tanto, tanto, tempo. E sono felice di esserci riuscito a Miami”. Sfoderando il sorriso più bello, col dritto che ha viaggiato a 188 chilometri all’ora (Blake era arrivato a 201 all’ora e Murray aveva sfiorato i 200) e l’ha aiutato a riaccendere il tifo di casa, riportando un campione yankee di singolare maschile a Miami da Roddick nel 2010 (addirittura dal 2004 non vincevano il singolare uomo e donna, da Roddick-Serena Williams). Ricreando un’atmosfera pazzesca, soprattutto il placido Long John, che ha contribuito a scatenare la folla chiamandola a gran voce, a ogni lato del campo, come faceva quell’iradiddio di Jimbo Connors. “Non avrei potuto scrivere un copione così. Stavo giocando davvero male, ma così vanno le cose nel tennis, prendi fiducia e tutto gira dalla tua parte” – ha ammesso Isner -. Proprio ora che vado verso l’ultima parte della mia carriera, questo è il miglior momento della mia carriera. Mi ero trovato altre tre volte in questa situazione e avevo perso a un passo dal traguardo. Stavolta ero pronto”.
Vincenzo Martucci
(Tratto dal sito www.federtennis.it)