Lo chiamano “Hubi”, perché Hubert Hurkacz è difficile da dire e ancor di più da scrivere, e perché il ragazzone polacco di 1.96 si è ormai americanizzato per interpretare al meglio il verbo tennistico del suo guru, Craig Boynton, che all’alba degli anni ’90 ha forgiato quel rude spaccalegna di Jim Courier portandolo al numero 1 del mondo e alla conquista di quattro Slam in sette finali.
Lo chiamano “Hubi” perché è sempre stato il cucciolo di famiglia, ma anche il predestinato nella scia del nonno pallavolista, degli zii tennisti, e dei genitori nuotatori, soprattutto mamma Zofia, ex stellina juniores nazionale che gli ha messo la racchetta in mano già a 5 anni. Lui è stato sempre appassionato solo e soltanto di sport, qualsiasi sport: dalla ginnastica al calcio, dal basket al biliardo, alle moto alle auto. “I geni, la motivazione e l’amore per lo sport sono sempre stati fortissimi nella mia famiglia e mi hanno aiutato tanto”.
E’ stato sponsorizzato da papà Krzysiek, general manager di un’importante azienda farmaceutica mondiale, e mamma, titolare di un’agenzia immobiliare ma, soprattutto, è stato mosso, da sempre, da una sfrenata ambizione che ha allenato nel culto dei suoi eroi, Roger Federer e Michael Jordan.
Gli appassionati italiani sono stati fortunati: l’hanno visto in azione alle Next Gen ATP Finals 2018, quando ha perso in tre set da Tsitsipas e in quattro da Tiafoe, ma ha superato Munar in cinque frazioni. Era grezzo, era taciturno, era timido, ma osservava e memorizzava tutto con due occhioni svegli ed aveva già il rispetto del gruppo di migliori under 21 in gita premio a Milano: sul biglietto da visita c’erano già le tremende mazzate che assestava in campo, di servizio – il suo colpo preferito – e da fondo.
Come ben sanno le star della sua generazione del ’97, Sascha Zverev ed Andrey Rublev, che lo ricordano finalista agli Australian Open junior 2015. E come sa benissimo Jannik Sinner, l’imminente avversario nella finale di Miami, col quale ha appena fatto coppia in doppio a Dubai e che, in un’intervista, ha confessato candidamente: “Hubi è il mio miglior amico sul circuito”.
Per fare il salto di qualità, per credere davvero in sé stesso, Hurkacz doveva imparare soprattutto a sciogliersi, a diventare agile e reattivo: doveva animare quel fisico scultoreo, doveva sposare la cultura della palestra del preparatore atletico Przemek Piotrowicz, che oggi è il suo angelo custode.
Così, dopo una lunga e fortunata gavetta nei Challenger, nel 2019 ha fatto centro al torneo di Winston Salem riaprendo il libro di storia della Polonia come appena il secondo eroe nazionale che mette un sigillo sul circuito ATP dell’era Open dopo i 15 titoli di Fibak dal ’76 all’82. Dopo di che ha conquistato due scalpi eccellenti come Thiem e Tsitsipas. L’anno scorso, dopo un brillante avvio battendo Schwartzman, Coric e ancora Thiem (il numero 4 del mondo col quale è 2-0 nei testa a testa) in ATP Cup e le semifinali ad Adelaide, è rimasto scombussolato come tanti dalla pandemia Covid e ha brillato solo a Roma battendo Evans e Rublev.
Quest’anno ha fatto qualcosa di simile: dopo essersi aggiudicato a gennaio il secondo torneo in carriera, a Delray Beach contro quel Sebi Korda – che poi è balzato alla ribalta -, ha sbattuto il muso contro Travaglia a Melbourne 1 e, già al primo ostacolo, contro Ymer agli Australian Open, contro Fokina a Montpellier, e quindi si è arreso al secondo turno contro Tsitsipas a Rotterdam e contro Shapovalov a Dubai.
Come pensare che, da numero 37 del mondo potesse arrivare in finale nel Masters 1000 Doc di Miami? Eppure, zitto zitto, ha inchiodato Kudla, Shapovalov, Raonic, Tsitsipas e Rublev. Non può essere un caso che tutti i giocatori particolarmente solidi che si mettono in luce ultimamente, quelli che non spiccano per una qualità particolare e certamente non fanno spettacolo ma non hanno punti deboli e rendono la vita terribilmente difficile ad ogni avversario, vengono dal nord Europa: dell’ungherese Marton Fucsovics al norvegese Casper Ruud al finlandese Emil Ruusuvuori, appunto, al polacco Kurkacz.
Non può essere un caso che Hubi impara così tanto dalle sconfitte: contro Shapovalov aveva appena perso ed ha saputo trovare le contromosse per imbrigliare il talento bizzoso del mancino, contro Tsitsipas era sotto un set e un break e, favorito dall’ennesimo pisolino del greco, ha saputo rovesciare totalmente la partita, contro Rublev ha ribadito il 2-0 nei testa a testa, stancando e smantellando il potente gioco monocorde del russo. Hurkacz s’è costruito pezzo a pezzo, partendo dall’alimentazione: è diventato vegano, deragliando totalmente dalle abitudini giovanili, perché s’è accorto che quel cibo gli dà più energia, come ha raccontato in un video per l’ATP. Gli piace la cucina indiana, tailandese e pad thai, adora i burritos, con guacamole, e deraglia solo per i gelati.
Ma il suo segreto è un altro, è il suo scrittore preferito, Robert Ludlum e il suo protagonista più famoso, Jason Bourne, col quale ha particolari analogie: “un nome senza volto” viene ritrovato in fin di vita, mentre va alla deriva nel Mediterraneo, si riprende grazie all’aiuto di un medico locale che gli apre la mente sul proprio io e lo instrada verso la scoperta della sua vera identità, quella di un killer professionista. Il tennis non è forse un libro giallo che si rinnova di game in game, di partita in partita di torneo in torneo? Almeno Sinner sa già con chi ha a che fare.