Sono passati 20 anni esatti da quando gli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone disputarono la prima delle due finali Nba contro i Chicago Bulls di Michael Jordan. E ancora oggi, come allora, gli unici commenti sulla vittoria contro i favoriti Clippers che li ha promossi alle semifinali dell’Ovest riguardano il fatto che… i loro futuri avversari, i Golden State Warriors, avrebbero preferito incontrare i Clippers perché di notte Salt Lake City è un mortorio mentre la vita notturna di Los Angeles è vibrante e ricca di sorprese. Fu il leitmotiv delle finali del 1997 e 1998, quando Dennis Rodman arrivò addirittura ad affittare un aereo privato per raggiungere, dopo le partite, Las Vegas per svagarsi un po’. Che i giocatori Nba frequentino i locali fino a notte fonda prima e dopo le partite, è una cosa abituale e non scandalizza nessuno. Preoccupa solo la security che spesso hanno attorno, per evitare guai. Nello Utah, i bodyguard si sfregano le mani e possono dormire sonni tranquilli.
Se le semifinali di Conference punteranno la loro attenzione soprattutto su San Antonio-Houston, coi Rockets di Mike D’Antoni capaci di umiliare in casa gli Spurs in gara-1 sommergendoli di tiri da tre punti (andatevi a rileggervi cosa abbiamo scritto a proposito su Sportsenators poco tempo fa), o sulla grande storia del piccolo grande uomo, Isaiah Thomas, nella serie tra Boston e Washington, pochi pongono attenzione su Golden State-Utah, serie segnata dal pronostico a favore dei campioni del 2015. Banalizzando, il concetto si potrebbe semplificare così: secondo voi, chi vince tra Steph Curry più Kevin Durant più Klay Thompson contro Gordon Hayward, Rudy Gobert e Joe Ingles?
Ma c’è qualcosa in fondo a questi Jazz che ci ricorda la squadra di vent’anni fa. Giocare nello Utah è anche un modo di essere che è ben rappresentato dalla pallacanestro di Quin Snyder che in tre stagioni ha portato i Jazz da 38 vittorie a 51 e al secondo turno dei playoff per la prima volta dal 2010, anno dell’ultima grande cavalcata di Jerry Sloan, il coach contadino che passava l’estate guidando trattori nei campi con gli amici d’infanzia.
Quella di Snyder è una bella storia americana, la più classica salita, caduta e risalita che fa pensare che l’America resti comunque il posto migliore dove giocarsi una seconda opportunità. Snyder, nato in un quartiere ricco di Seattle, Merced Island, dove il reddito medio per famiglia è di 150 mila euro, avrebbe tranquillamente potuto fare il modello. E’ stato invece una stella dell’università di Duke sotto coach Krzyzewski dalla quale è uscito con una doppia laurea in filosofia e scienze politiche. Non scelto dalla Nba nel 1989, lascia un camp dei pro convinto che la sua esperienza nel basket si sarebbe conclusa per una carriera a Wall Street. Non va bene. Ricompare nel basket nel 1992, come uno dei tanti vice allenatori dei Los Angeles Clippers sotto Larry Brown di cui sposa la figlia. La sua volontà di allenare non passa inosservata: Krzyzewski lo chiama a Duke come assistente. Nei sei anni da vice ne approfitta per prendere un dottorato in giurisprudenza e un master in business administration. Un genio. Così, a soli 33 anni, Snyder viene chiamato come capo allenatore all’università del Missouri, che tutti chiamano Mizzou. E’ l’enfant prodige del basket americano, bello, ammirato, di successo. Inizia con stagioni vincenti, lavora senza tregua, niente e nessuno possono più fermarlo. Il problema, è che il primo a esserne convinto è lui. La sua vita va sopra le righe, è sempre al centro dell’attenzione soprattutto al di fuori del campo, i gossip sulle sue abitudini private si sprecano. Ma il tracollo arriva quando si scopre che Missouri commette delle irregolarità per reclutare giocatori, perde borse di studio, viene esclusa per punizione dal torneo Ncaa. I risultati cominciano a precipitare e quando Snyder viene licenziato, non c’è nessuna pietà per uno che dalla vita ha avuto tutto e l’ha buttato via.
E qui la storia si fa più interessante, anche per capire come funzionano le cose nella Nba e tra le “scuderie” di allenatori. Ai Clippers, Snyder aveva lavorato assieme a RC Buford che, nel frattempo, era diventato il g.m. e l’architetto dei San Antonio Spurs campioni Nba. E quando deve trovare un allenatore per gli Austin Toros, la squadra satellite degli Spurs nella lega di sviluppo, vuole dare una seconda opportunità a Snyder che, nel frattempo, dopo il divorzio, per più di un anno era completamente sparito dalla circolazione, con tanto di esilio in Costarica per star più lontano possibile dalla pallacanestro. Snyder accetta, scende da più di un milione a 75 mila dollari (lordi) l’anno di stipendio passando da una delle grandi università americane a una squadra che neppure i cittadini di Austin sanno che esiste e gioca, quando va bene, davanti a un paio di migliaia di spettatori. Ma è lì che Snyder scopre di amare davvero il suo lavoro e sviluppa una qualità di cui tutti lo ritengono un maestro: migliorare i giocatori che allena. Nel 2010, i Sixers gli offrono un contratto come quarto assistente, l’anno successivo va ai Los Angeles Lakers e lì incontra Ettore Messina che ne rimane colpito. Tanto da portarlo con sé, nel 2012, al Cska Mosca. Ma la Spurs Connection, quella specie di commonwealth di chi ha lavorato a San Antonio e poi ha fatto fortuna in giro per la Nba, torna in azione: quando Mike Budenholzer, storico assistente di Gregg Popovich, va ad Atlanta, lo chiama con sé. Ma solo un anno: perché intanto Dennis Lindsey, ex vice g.m. degli Spurs e capo di Snyder ai Toros, diventa g.m. dei Jazz e offre al suo vecchio allenatore un posto da head coach. Quando uno dice che conoscere le persone giuste non conta…
Utah con Lindsey e Snyder ha ricostruito una squadra nella solida tradizione dei Jazz. Crescendo giocatori in casa puntando su un gioco senza grandi stelle ma solido, anche in difesa. In una Nba che va a mille all’ora, i Jazz hanno un passo più lento, con giocatori che, a parte il centro francese Rudy Gobert, non sono atleti pazzeschi ma sanno leggere le partite. E quando vedo la loro stella, Gordon Hayward o l’australiano Joe Ingles, non riesco a non tornare con la mente a Jeff Hornacek, che assieme a Stockton e Malone contese fieramente il titolo a Michael Jordan col suo fisico da persona normale. Hayward, in realtà, è 10 centimetri più alto (2.03) dell’attuale allenatore dei Knicks, ma ha dei fondamentali da guardia anche perché è cresciuto tardi e, vedendolo restare piccolo, il padre lo spinse ad esercitarsi come se fosse destinato a restare così. Tanto che Gordon pensava piuttosto di fare strada nel tennis. Insomma, i Jazz sembrano spacciati contro Golden State ma sono tornati i Jazz. Dalle parole di Iguodala e Green, terrorizzati dalle noiosissime notti dello Utah, probabilmente Salt Lake City non è cambiata molto dalle finali di 20 anni fa, quando in quasi tutti i locali non servivano alcolici, delle ronde di sera controllavano che la decenza fosse rispettata e, se entravi negli spogliatoi dei Jazz, invece che lo star system dei Bulls ti trovavi di fronte ai vestiti del supermercato di Stockton e Hornacek appesi negli armadietti. Anche questo contribuiva a rendere quelle finali uniche. Oggi come allora l’impresa per i Jazz appare impossibile. Ecco perché vorrei che vincessero almeno un paio di partite.
Luca Chiabotti