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… SECONDA PARTE
Chi a Rosario e dintorni ci parla del Trinche ci presenta in un solo calciatore una meravigliosa sintesi di tanti campioni argentini. Ci parla del possesso della palla di Juan Román Riquelme, dell’eleganza di di Fernando Redondo e persino dell genio di Diego Armando Maradona. Ci racconta le prodezze di un “mediocentro” mancino, di un centrocampista geniale nella visione di gioco e nel controllo del pallone, elegante nella conduzione, potente e preciso nel tiro. Certamente non veloce ma questo non è, come abbiamo visto, una requisito essenziale. C’è chi ha detto, credo Gianni Brera, che il centrocampista non deve correre ma piuttosto camminare o, si può aggiungere, trotterellare. Ma non per tutto il campo.
Ero piccolo quando mio padre mi insegnò a distinguere i giocatori scarsi, che vanno sempre dietro al pallone, da quelli buoni, che lo sanno aspettare e che lo fanno viaggiare o che si muovono nello spazio indicando dove riceverlo. Certo, è una distinzione un po’ snob. La palla, quando ce l’ha l’avversario, non viene a noi da sola. Per giocare la palla bisogna pur riconquistarla. Ma mio padre amava il calcio di Gianni Rivera, la cui indubbia classe pareva inibirlo dal compito plebeo di inseguire la palla e gli avversari.
Il calcio, se lo vediamo in relazione alla palla, ha tre fasi: la conquista, la gestione e l’indirizzo nella porta contraria. “Recuparar, gestar y definir”, come dice Menotti. A volte ne aggiunge una quarta, difendere, ma mi sembra piú una condizione tattica, come attacare, che una relazione specifica con la palla. Quindi, certamente per recuperare la palla bisogna anche “andarle dietro”. Non c’è dubbio, tuttavia, che questa fase, sebbene necessaria, appaia come la meno affascinante. E’ “la vita da mediano” che canta Ligabue. Richiede mezzi fisici e dedizione ma non il talento necessario a chi deve finalizzare il gioco o, nel ruolo che qui ci interessa, a chi lo deve creare.
Johan Cruyff, che è forse la personalità con maggiore influenza del calcio degli ultimi 40 anni, quando allenava il Barcellona disse a Guardiola che, per comandare il gioco della squadra, doveva muoversi e offrirsi in un raggio di dieci metri, e non di più, dal circolo centrale del campo. Immaginiamoci quindi il Trinche con il passo che a volte diventa una dolce falcata, aggirarsi con ritmo lento ma costante in questo spazio medulare dove il gioco si crea. Immaginiamolo facendo girare la squadra, chiedendo la palla, non perdendola mai e distribuendo con precisione e inventiva il gioco.
Ciò che rende il racconto ancora più magico è che Carlovich giocò soprattutto nel Central Corboba di Rosario, cioè una squadra della seconda divisione. Nella serie A argentina giocò solo due partite, all’inizio di carriera, nel Rosario Central, la squadra piú importante della città insieme al Newell’s Old Boys. la sua vita calcistica trascorse in serie B. Era uno di quei calciatori la cui ambizione si sposava con la passione per il calcio ma non per la carriera calcistica.
Molti di noi hanno incontrato queste figure mitiche. Abbiamo conosciuto un compagno o un avversario di cui abbiamo ammirato un talento che sembrava immenso e immaginato per lui un destino calcistico che poi, per qualche ragione, non si è compiuto. Si tratta di veri innamorari del gioco, e spesso del pallone, che potevano essere ma che poi non hanno voluto o potuto. Il talento intravisto, si sa, non è completo. Le promesse sono belle ma compierle non è facile. Il talento incostante non è tale. Inoltre il talento per mantenersi deve migliorarsi sempre. Anche poco, pochissimo, ma costantemente. E molti si perdono. Alcuni, amaramente, diventano i campioni da bar, “i giocatori tristi che non hanno vinto mai”, di cui canta De Gregori.
Ma non è questo il caso di Carlovich. il Trinche non era un talento incompiuto o un campione mancato. No, lui era una vera leggenda perché, sebbene giocasse nella seconda divisione (la serie B), convocava nel suo stadio tantissime persone che venivano solo per vederlo giocare. Viaggiavano per concedersi il lusso di andare a vedere non Maradona o Messi ma il Trinche. “Vamos a ver jugar al Trinche” diventava così un’intenzione che ogni sabato congregava una massa di appassionati dentro e fuori Rosario. Marcelo Bielsa, come quasi tutti gli allenatori, non è legato a una visione, per cosí dire “romantica” del calcio, è anzi un teorico della ottimizzazione dei gesti tecnici e dei movimenti tattici. Ebbene, confessò un giorno a Valdano che ogni sabato andava a veder giocare il Trinche. La sua arte calcistica tralatro si poteva apprezzare solo nella dimensione che lui aveva scelto, cioè alla velocità e alla intensità che erano a lui congeniali.
E naturalmente nella sua vita ci furono partite mitiche. La piú famosa fu nel 1974 quando in preparazione dei Mondiali che in estate si sarebbe giocato in Germania, la nazionale argentina giocò a Rosario contro la selezione locale. La squadra rosarina era composta da 5 giocatori del Rosario Central e 5 del Newell’s Old Boys. L’undicesimo giocatore era l’unico che non giocava in prima divisione ed era, ovviamente, Tomás Carlovich. Con il Trinche alla regia, i rosarini diedero “un baile” ai biancocelesti. Finí 3 a 1 per la selezione rosarina. Il commisario tecnico dell’Argentina, che non sapeva nemmeno chi fosse quel numero 5 che stava dominando il gioco, chiese pietosamente al suo omologo rosarino di toglierlo dal campo. Tutti i giornali glorificarono la prestazione del Trinche.
A distanza di tempo il suo umile commento è: “Sì, si giocò bene”. E a chi gli chiedeva della sua prestazione rispondeva parlando del pubblico e dei suoi compagni: “Come potevo non giocar bene davanti a sessantamila persone e circondato da tanti campioni”. Quella partita è ancora oggi l’orgoglio del calcio rosarino. L’evento che unisce nella celebrazione le sue tifoserie rivali.
Altri episodi nutrirono la leggenda del Trinche. Un giorno, giocando in trasferta, si era dimenticato a casa i documenti, che erano indispendabili per redigere la “distinta” e permettere di giocare. Anche da noi una volta era cosí. Sulla base della distinta l’arbitro entrava nello spogliatoio e faceva l’appello; quando pronunciava il cognome del giocatore questo doveva rispondere con suo nome e indicando il suo numero di gioco. Quindi senza documento non si giocava. Eppure alla fine il Trinche giocò grazie all’intercessione della squadra ospitante che, considerando le aspettative del pubblico, non voleva perdere l’occasione di vederlo in campo. In un’altra partita fu, cosa rara per lui, espulso. Ma mentre usciva dal campo e veniva reclamato a gran voce dal pubblico, l’arbitro lo chiamò pregandolo di continuare a giocare. L’espulsione, cosa ancora piú rara e forse unica, era stata infatti ritirata per acclamazione popolare.
Finché arrivò il momento in cui, come dice Valdano, “la leggenda si trasformò in mito”. Nel 1976 Menotti convocò Carlovich, che giocava come sappiamo in serie B, alla nazionale argentina. Si stava preparando la squadra che poi vinse il Mundial del 1978. Il Trinche si mise allora in marcia da Rosario verso Buenos Aires. Ma lo attesero invano. Non arrivò mai al raduno di Menotti. Si dice che si fermò in un lago a pescare, o che si perse e tornò indietro. La verità non si seppe mai. Continuò a giocare, a divertirsi e a divertire. Verso la fine della sua carriera Maradona giocò nel Newell’s Old Boys e dissero che era il calciatore più grande che aveva giocato a Rosario. Lui rispose che il più grande era il Trinche Carlovich. Non era una battuta.
Fine della seconda parte.
Segue…
di Rocco Rossetti