Ne abbiamo viste piangere tante, in diretta, in conferenza stampa, davanti a microfoni, telecamere, taccuini, registratori ed occhi indiscreti. Ragazze e donne che, un attimo prima, in campo, impugnando una racchetta da tennis, terrorizzavano le avversarie e si facemmo invidiare in mondovisione per personalità e compostezza. E, un attimo dopo, al suono di una sola parola, non riuscivano a trattenere le lacrime e tornavano bambine, incapaci spesso di spiaccicare un altro verbo in pubblico. Qualcuno dice che non è giusto, e dà la colpa ai giornalisti cinici e cattivi, che fanno le domande “sbagliate”, cioè più “giuste”, quelle che fanno più male, toccando la sfera privata, ferendo i sentimenti, infilando il dito nella piaga di autentici drammi personali e familiari. Qualcuno parla apertamente di sopruso, di violenza psicologica, si appella ad un ipotetico codice deontologico, ipotizza un prontuario di domande da evitare e propone multe ed ammende per i soliti media invadenti al limite dello stalking. Qualcun altro, invece, ricorda che un personaggio pubblico è tale nel bene e nel male, e dev’essere pronto a vedere la sua vita in pasto alla gente. Che, si sa, è cattiva, come certi giornalisti che servono proprio gli appetiti, anche odiosi, della gente. Di certo non è esaltante vedere certe scene e sicuramente, soprattutto chi è padre, è dotato di un’autocensura diversa. Ma la cosa si ripete, nel tempo, nel tennis, e non accenna a interrompersi, malgrado gli sforzi delle ancelle del Wta Tour, che fanno da filtro con le atlete.
Abbiamo visto Martina Navratilova che piangeva dopo gli evidenti atti di razzismo che subiva da parte del pubblico, da “nemica” dell’America che sbarcava dall’ex Cortina di Ferro ad abbuffarsi nel frigo sempre pieno degli yankees e voleva persino battere la prima della classe del tennis, Chris Evert, tutta perfetta coi suoi nastrini e i vestiti color pastello. E poi l’abbiamo vista cogli occhi rossi quando sbandierava, fiera, la sua omosessualità, come nessuno mai ha più fatto. Abbiamo visto Conchita Martinez che avrebbe voluto ingoiarsi la confessione in aereo al giornalista inquisitore spagnolo: “Giura, giura che non mi hai detto che il tuo allenatore ti ha maltrattata, giura!”. E lei piangeva, terrorizzata, sconvolta, piccola. Abbiamo visto Steffi Graf, la regina del Golden Slam, la signorina dritto dominatrice del tennis, che non riusciva a dire più una parola appena gli pronunciavi il nome di papà Peter, in carcere, da evasore fiscale dei proventi della figlia. Abbiamo visto piangere la potentissima Mary Pierce quando le chiedevano che cosa fosse successo esattamente a Latina quando papà Jim aveva rintracciato lei, la mamma e il fratello e si fosse beccato una coltellata dalla guardia del corpo che avevano assoldato. Abbiamo visto piangere Martina Hingis, dopo la folle finale del Roland Garros contro la Graf, quando non voleva nemmeno presentarsi alla premiazione, dopo essere stata quasi linciata dal pubblico del cattivissimo Philippe Chatrier.
I tempi cambioano, le ragazze si sono fatte più forti e sono più allenate alle domande dei media? Macché. A Wimbledon, alla prima conferenza stampa, abbiamo visto piangere Venus Williams, ragazza intelligente e sensibile, che ha superato i primi anni di vita nel ghetto nero di Los Angeles, la scomparsa di una sorella uccisa in una sparatoria nel suo quartiere, la sindrome di Sjogren, il sorpasso nel tennis dell’altra sorella, Serena. Ma, come si fa a resistere se ti chiedono di ricordare l’incidente d’auto della vigilia di Wimbledon in cui, alla guida della sua autovettura, ha comunque causato la morte del passeggero del veicolo che l’ha investita? Ci ha molto toccato. Ma quante visualizzazioni ha fatto quel video nel mondo web tanto amato da questi stessi giovani che cercano le stesse identiche cose sugli altri?
Vincenzo Martucci