La storia di Ryuichi Kiyonari ha dell’incredibile. Basti dire che ricorda quella di Andre Agassi. Come il tennista americano, il rider giapponese ha cominciato a praticare il suo sport spinto dal padre, senza nutrire il minimo interesse. “Avevo 5 anni quando ho infilato il casco per la prima volta, e non per mia scelta: avevo anche paura. È stato papà, appassionatissimo delle due ruote come tutta la mia famiglia, a mettermi in sella a una minimoto” spiega il pilota del Moriwaki Althea Honda Team, 36 anni di cui 18 trascorsi in pista.
Raccontaci qualcosa in più.
“Da piccolo mi piaceva stare in compagnia degli amici e giocare a calcio, basket e baseball, che è molto seguito nel mio Paese. Mi divertivo anche con i miei fratelli e le mie sorelle, siamo sei, nel bosco: sono nato in mezzo alla natura ed era una gioia stare all’aperto tutta la giornata. Peccato che capitasse di rado. Anzi, quasi mai: i miei genitori mi tenevano a casa per farmi allenare in moto”.
Non sarà stato facile crescere così.
“Per niente: impegnarsi a capofitto in qualcosa che non ti entusiasma richiede sempre un rigore estremo, figurarsi se sei un bambino. Devo dire, però, che nella cultura giapponese la disciplina ferrea è insita. A ogni modo, la mia è stata una full immersion vera e propria, da subito: nei weekend papà si dedicava all’enduro e al motocross, i suoi hobby preferiti. Partivamo tutti per le gare e non ci perdevamo un Gran Premio in tv”.
Il tuo primo risultato importante è arrivato a 20 anni: hai vinto il Campionato giapponese ST600.
“Merito di una nuova avventura che mi aveva cambiato mentalità, a 17 anni: entrare in una squadra di grandi professionisti, come Daijiro Kato e Makoto Tamada, spalancava le porte delle scuderie ufficiali. Da quel momento, nonostante lo sforzo mi pesasse ancora, ho preso fiducia”.
Infatti poi ti sei aggiudicato tre titoli della British Superbike.
“Una soddisfazione enorme, perché quel campionato è davvero tosto. Come il Mondiale delle derivate: sono tornato a distanza di 11 anni per mettermi alla prova con talenti straordinari come Jonathan Rea, Álvaro Bautista e il mio compagno di team, Leon Camier: è uno che non molla mai”.
Hai corso anche nella MotoGP e conquistato vari trofei, come la leggendaria 8 ore di Suzuka (4 volte, ndr): hai mai ringraziato tuo padre per la tua carriera?
“Mai e litigavamo spesso, quando ero più giovane. Con l’età il mio approccio nei suoi confronti è cambiato. Certo, so che senza lui non avrei cominciato, ma senza il mio carattere, non sarei qui.
Dopo tanto tempo vissuto nel paddock, dove trovi gli stimoli?
“Nella voglia di andare veloce e, possibilmente, tagliare il traguardo davanti a tutti. Questa stagione sulla CBR1000RR non sta andando come speravo e ora mi limito a puntare al sesto posto; guardo oltre”.
Il ricordo più bello che porti con te?
“Una qualsiasi delle mie vittorie. Il mio lavoro continua a non entusiasmarmi, ma quei momenti sul podio mi regalano una gioia che mi ricompensa di ogni fatica. È proprio un amore-odio il mio, sembrerà strano. Eppure è la verità”.
*Credito foto: Dario Aio