Gianni ed io, in tanti anni di frequentazione nei tornei di tutto il mondo, avevamo sviluppato un rapporto particolare. Lo definirei amorevolmente conflittuale, forse perché avevamo più punti in comune di altri che si sono proposti come suoi eredi senza aver mai letto (e adorato) “il primo Clerici”, quello che scriveva al Giorno di Milano, come gli ricordavo per stuzzicarlo, pur nutrendo comunque per lui sincera stima ed ammirazione. “Ormai sei una star, allora eri il miglior cronista possibile, il mio idolo”, gli dicevo, indicandogli intanto la irresistibile signora Pecci, moglie di Victor, a un match di coppa Davis.
Lo sapevo ammiratore della bellezza in generale, come fonte di vita da vedere ed esaltare in ogni forma. E quella era la parola magica fra noi, che si coniugava con l’ironia e il paradosso, diventando un gioco di continue parate e risposte dialettiche. Perché Gianni sapeva ridere delle piccole e delle grandi cose e trasmetteva questa gioia nella scrittura, grazie all’invidiabile dono del talento nel delineare persone e momenti pur mantenendo un delicato equilibrio fra leggerezza e precisione. Era il migliore perché ci aggiungeva la conoscenza e l’autentico amore per la storia del suo tennis. Non era vero che dimenticava e non sapeva: chiedeva conferma, questo sì, si confrontava, fingeva una vaghezza che non gli era propria, e pensava sempre con attenzione quello che scriveva.
Sempre per provocazione, vagheggiava le più svariate e contrastanti passioni e si raccontava imperdonabilmente distratto e sbadato. Ma era un professionista serio e coscienzioso, anche più di tanti altri. Il suo problema era che gli costava ammettere le sue qualità normali per timore di mostrarsi troppo simile alla gente comune. Preferiva alzare una barriera e definirsi scriba, scrittore, ricco, unico, e quindi libero di uscire dal tema e dal “politically correct”. Forse perché così poteva continuare al meglio la sfida (e il gioco) con se stesso e la sua pigrizia e tenersi aperto la possibilità di poter vergare qualsiasi scritto, fedele al dogma che ripeteva spesso: “Mai rovinare una bella storia con la verità”. Poi comunque raccontava, da un’altra angolazione e con la sua grazia inimitabile, la stessa storia degli altri, magari aiutandosi con l’attore esterno, un “affecionado”, un amico, un collega stesso. Spruzzandoci sopra la polvere fatata del genio. Quando aveva voglia, quando appagava il suo spiritello giovane e beffardo.
Carlo Annovazzi, bravo e appassionato oltre che elegantissimo collega, adorava Gianni e ha raccolto alcuni dei suoi articoli legandoli alla frequentazione comune al torneo ATP di Milano, che è emigrato anche al Palalido dove oggi si disputano le Next Gen Finals under 21. “Gesti bianchi a Milano” riunisce così gli articoli quotidiani che Clerici sembrava quasi sminuire. “Anche oggi ho il mio solito colonnino”, si lagnava appena dal giornale gli comunicavano le misure del reportage. Anche se, su quella distanza, proprio come Federer e gli altri Fab Four sui 5 set, aveva stabilito un limite invalicabile per i comuni mortali, esaltandosi in modo spesso magistrale. Subito dopo la reazione ben nota a noi vicini di banco, afferrava un’idea o un’immagine nell’aria, abbozzava magari un mezzo sorriso, e si metteva alla macchina da scrivere o al computer, che gli faceva sempre “dispetti”. Qundi, condendo il tambureggiare sui tasti di strani gesti ed emettendo strani suoni, ha delineato personaggi su personaggi in modo unico, affibbiando aggettivi e nomignoli che sono diventati inamovibili e di uso comune. Opere di cui lo ringraziamo di cuore da umili cronisti: non è facile essere numeri 1, e “il Clerici” lo è stato.
Come Annovazzi, anch’io l’ho trovato perfetto, in certe descrizioni rubate alla fantasia ma assolutamente verosimili dei pensieri e dei comportamenti, dentro e fuori dal rettangolo di gioco, di quei personaggi tennistici cui Gianni si è avvicinato in gioventù anche da atleta accanto a Nicola Pietrangeli. Così com’era inimitabile nell’immaginare paralleli con personalità della storia, dello sport e dell’arte, come nel tratteggiare tecnicamente e psicologicamente i limiti e le qualità degli eroi della racchetta. Così, “Gattone Mecir” resta Gattone Mecir anche per Miloslav dal rovescio mellifluo e letale come l’improvvisa zampata di un gatto che sembra solo sonnacchioso. “Jimmy l’antipatico” fotografava alla perfezione Connors che tutti gli altri chiamavano Jimbo omettendo la facciata negativa del campione. Persino “Paolino la peste” ha accettato l’etichetta di “Neuro Cané”. E Caratti è rimasto per sempre “Carattino”, senza sentirsi davvero sminuito.
“I gesti bianchi”, immagini e tempi di un altro mondo e di un altro tennis, sono rimasti nel suo cuore come la divina Lenglen. E rimarranno anche in chiunque abbia amato ed ami il tennis.