Marco Cecchinato che, da numero 72 del mondo, senza storia nello Slam quasi senza storia anche sull’Atp Tour, batte l’ex dominatore di due anni fa, Novak Djokovic in quattro indimenticabili set, rimontando da 1-4 al quarto e salvando tre set point per un drammatico, e probabilmente catastrofico quinto set, e si qualifica alle semifinali del Roland Garros, 40 anni dopo Corrado Barazzutti, è il miracolo più grande di sempre di un tennista italiano? Malgrado l’esaltazione del momento, dopo una partita così entusiasmante, di 3 ore e 26 minuti, sinceramente la risposta è no: non c’è paragone con la finale tutta azzurra Flavia Pennetta-Roberta Vinci agli Us Open 2015 e poi, al secondo posto, con il primo trionfo Slam delle donne, con Francesca Schiavone, al Roland Garros 2010. E’ il più grande miracolo almeno al maschile? No, il 1976 di Adriano Panatta da solo, fra Roma e Parigi, e coi compagni di coppa Davis, rimane unico. Eppoi, non c’è scappata la lacrimuccia che in tutte le altre occasioni ed anche in altre, come nella assurda rimonta di Paolo Cané su Mats Wilander nel 1990, non eravamo proprio riusciti a trattenere.
Perché diciamo ciò? Perché, sia pure a sorpresa, per chi lo conosce e l’ha visto giocare un anno fa, questo ragazzo di Palermo di 25 anni, pur esploso soltanto negli ultimi 50 giorni, pur capace sulla sacra terra rossa del Roland Garros di infilare il numero 11 del mondo, Carreno Busta, il 9, David Goffin, ed ora l’ex “cannibale” che due anni fa proprio su questi campi aveva chiuso lo Slam alla carriera firmando tutti i Majors, sfoggia la sicurezza dei forti e il comportamento dei veterani. “Non so neanch’io qual è stata la chiave, mi piace questa definizione del “nuovo Cecchinato”, perché penso di essere maturato, a 25 anni, e di raccogliere anche il frutto di tanto lavoro col mio team”.
Perciò, ha pianto sì, il nuovo eroe italiano, “Ceck”, un attimo dopo il trionfo sul campo intitolato alla mitica Suzanne Lenglen, perché ha realizzato quanto aveva combinato: “Mi sono scappate due lacrime, perché non riuscivo a credere di aver battuto un campione come Djokovic e di esserci riuscito in uno Slam e di essere arrivato in semifinale. E ho anche rivisto il lungo cammino che ho fatto, da quand’ero ragazzino, i sacrifici, le battaglie…”. Ma, prima, per tre ore e mezza, non ha mai tremato, non ha mai avuto paura: “Anche se sapevo, vedevo, chi avevo davanti, come avversario, uno che conosco bene perché mi ci sono allenato tante volte a Bordighera alla Accademia di Sartori, Piatti e Brandi”. Eppure, anche se ha avuto cali anche impressionanti, anche preoccupanti, come nel terzo set, che ha lasciato in toto nelle mani del ben più esperto avversario, come nel quarto quando è scivolato 1-4 e ha salvato tre palle dell’1-5 a Nole, anche doveva essere forzatamente stanco dopo una simile, inedita, battaglia, non ha mai dato la sensazione che sarebbe davvero crollato del tutto, che avrebbe perso la testa. Come gli era successo magari in passato.
“No, non ho un mental coach”, insiste. Eppure, è rimasto composto in campo, sempre. “Ero molto stanco e nervoso, il cuore mi andava a mille, mi tremava anche un po’ la mano, penso che sia normale”. Ha continuato a cercare di fare gioco, servendo con un cocktail perfetto di forza e precisione, ed aprendosi il campo con quella meravigliosa sventagliata di rovescio a una mano, per poi spingere decisamente a destra, col dritto. “Sapevo che contro Djokovic era l’unica via, dovevo spingere io, sapevo che non sarebbe stata mai finita, che lui avrebbe alzato ancora il livello, che io avrei dovuto insistere, e tirare vicino alle righe. Nella speranza di essere poi premiato”. Meraviglia di un italiano! Ha ingoiato bile, ha subito qualche colpo magistrale da parte di Djokovic, ancora convalescente dopo la sbornia dell’ultimo anno e mezzo, ma pur sempre capace, come tutti i campioni, di tirar fuori il famoso coniglio dal cappello da prestigiatore. Ceck ha tenuto di nervi anche quando è stato punito con un’ammonizione dall’arbitro, perché il suo angolo, con a capo coach Simone Vagnozzi, gli dava suggerimenti continui, anche quando gli è stato tolto a tavolino il primo “15” del quarto set perché aveva recuperato le scarpe dagli spogliatoi: “Non pensavo che potevo andarci solo per andare alla toilette”. E poi ancora e ancora. Quando ha riagguantato il 5-5, ha avuto la palla-break del 6-5, l’ha affondato il rovescio in rete, ma ha comunque raggiunto il tee-break. E poi quando ha gestito colpi ed emozioni da 3-1 a 3-4, nella baraonda di cinque mini-break di fila, e poi, dal 6-5, nel su e giù dell’alternanza match-point e set-point.
Bravo, bravissimo, e freddo, comunque, a rimettersi sempre a testa sotto, un match point pet lui, cancellato dal dritto di Nole, tre set point Djokovic, altri tre match point per lui, fino all’ultimo che sigilla con la risposta longilinea di rovescio che pizzica l’ultimo angolino del campo, e fissa il 13-11 decisivo. Che gli danno 570mila euro, il numero 27 del mondo, la speranza di un altro match, in semifinale contro Dominic Thiem, e la certezza di un’altra vita da tennista professionista, con una testa di serie già a Wimbledon. “Ho continuato a crederci durante nel match, e ho continuato a crederci dal primo match qui, quand’ero sorto di due set contro Copil, ci ho creduto dopo, sempre, senza mai accontentarmi dopo le vittorie contro Carreno Busta e Goffi, e senza aver paura contro Nole, anche quando lui salvava i match point con quel dritto o quella volée pazzeschi, e io vedevo i fantasmi, perché temevo che saremmo arrivati al quinto set e lui sarebbe stato il favorito. E continuo ora che devo giocare contro Thiem, che ho battuto una volta in un Futures. Certo, se mi proponessero un contratto con la vittoria su Dominic e poi la sconfitta infilale con Rafa, firmerei col sangue”.
Un’affermazione che sembra azzardata per chi era stato condannato a 12 mesi per aver truccato una partita, e si era salvato da quella bambinata da immaturo, “da non professionista”, come suggerisce coach Sartori che ha creduto in lui a 17 anni, “perché non ha mai paura di privare qualcosa di nuovo, in campo”. Proprio come ha fatto in questa stupenda cavalcata di Parigi, fino ad entrare nella storia del tennis italiano: “Non sapevo che erano 40 anni che un azzurro non arrivava alle semifinali Slam, sono felice di averlo fatto io, è un bel momento per il tennis italiano, spero che tutta Italia sia felice di questo”. Con quel numero 13, “il mio numero fortunato”, tatuato sul polso, che prelude ad altri aiuti del destino. Se li meriterà tutti, con l’aiuto degli angli custodi, Sartori e Vagnozzi. Della serie, chi trova una guida trova un tesoro.
Vincenzo Martucci