Il Giro d’Italia 2019 esplora la bellezza e la memoria. Si ritrovano i fili di seta lasciati da Fausto Coppi nel centenario della nascita. Si arriva a Novi Ligure, passando per Tortona e Pozzolo Formigaro, dove Cavanna aveva la sua scuola. Si fa la Cuneo-Pinerolo – solo 146 km e un unico colle, invece di cinque – che ricorda, almeno nominalmente, a 70 anni di distanza, l’assolo di Coppi, 192 km, il più lungo della storia del Giro.
A Novi, bellissimo, c’è il Museo dei Campionissimi. Lì rivivono Girardengo e Coppi con le loro biciclette e le loro storie. A Novi si celebrerà anche il centenario della prima vittoria di Girardengo nel Giro del 1919. Era appena finita la Grande Guerra. Girardengo, campione d’Italia, vinse le due prime tappe a Trento e Trieste, appena redente, facendo garrire la maglia tricolore come una bandiera. Era appena sopravvissuto alla spagnola, ma vinse 7 tappe su 10. Primo ad essere leader dall’inizio alla fine, fu chiamato Campionissimo.
Ma ci sono altre celebrazioni. La seconda tappa arriva a Fucecchio, città natale di Indro Montanelli, che fu inviato del Corriere della Sera al Giro nel 1947 e nel 1948. Montanelli, da buon toscano, tifava per Bartali. Nel 1969, quando Merckx fu escluso dal Giro per doping, scandalizzato, scrisse un fondo famoso titolato “Tutti a casa”, in cui invitava tutti i corridori a lasciare la corsa.
Montanelli andava in bicicletta. Nel 1961 fece il regista di un film sulla rivolta di Budapest con Lea Massari. Da Cinecittà si recavano insieme in bicicletta a pranzare. Un giorno Montanelli, che teneva al guinzaglio il suo cane Gomulka, cadde dalla bici e si ruppe il femore. Una frattura più grave di quella fatta poi dai proiettili delle Brigate Rosse. La colpa ricadde sul povero Gomulka. Ma c’è chi pensa che fosse la bella Lea la causa di quella rovinosa caduta. Al primo approccio, infatti, il focoso Indro, 52 anni, le aveva messo le mani addosso. Lea Massari, 28 anni, reagì come una tigre, chiamandolo “fascista”. Così diventò “La Comunista”.
La terza tappa parte da Vinci. Celebra i cinquecento anni della morte di Leonardo Da Vinci. Questo genio universale, che aveva il suo atelier a due passi dal Duomo di Milano, nel 1493 aveva già inventato la bicicletta. Uno dei suoi allievi, Gian Giacomo Caprotti di Oreno, detto Salaì, ne lasciò uno schizzo che restò murato per secoli nel Codice Atlantico. Fu Pompeo Leoni a “seppellire” la bicicletta di Leonardo. Motivo? Quel foglio era disegnato sui due lati: da una parte schizzi di fortificazioni di Leonardo, dall’altra la bicicletta con disegni pornografici di Salaì. Pompeo Leoni coprì quella vergogna, incollandola al foglio del Codice e privilegiando la fortificazione.
La bici riemerse nel restauro di quattro secoli dopo. Ma perché Leonardo, dopo averla concepita, non la realizzò? Perché gli Sforza lo pagavano per progettare fortezze, macchine idrauliche, canali, meccanismi per feste, matrimoni e banchetti.
La bici di Leonardo è completa, munita di due ruote uguali da otto raggi, manubrio a T, telaio orizzontale con due forcelle per contenere le ruote, sella, catena e pedali. Di certo non funziona. Ma questo potrebbe essere dovuto all’imperizia di Salaì, 13 anni, amante gay dell’artista, che potrebbe aver ricopiato in modo infedele il disegno del maestro. Del resto le ruote dentate a denti cubici delle macchine idrauliche di Leonardo funzionavano benissimo.
Il Giro, poi, va a San Giovanni Rotondo a cinquant’anni dalla morte di Padre Pio, che, durante un Giro, Bartali andò a trovare da Foggia, mentre i suoi rivali cenavano e dormivano.
Arriva a L’Aquila a dieci anni dal terremoto e abbraccia con affetto questa bella città e i suoi abitanti. Si spinge anche a Santa Maria di Sala, la culla di Toni Bevilacqua, due volte campione del mondo dell’inseguimento, un uomo capace di vincere la Roubaix, resistendo alla caccia di due campioni come Bobet e Van Steenbergen e arrivando solo con 1’32” di vantaggio. Gianni Brera lo chiamava Labrón.
Poiché nel 2019 si festeggia anche il centenario della nascita di Brera, grande direttore della Gazzetta dello Sport, la partenza da Bologna la Dotta, la Grassa, la Rossa, ci fa ricordare che qui – al Giro d’Italia non in uno stadio – inventò il più famoso dei suoi soprannomi: Abatino.
Il primo Abatino di Brera, infatti, non fu Rivera e nemmeno Livio Berruti, ma Giorgio Albani che il 17 maggio 1952 a Bologna, bruciando Magni e Coppi, vinse la prima tappa e indossò la maglia rosa. Brera era lì e, poiché Albani era giovane, occhialuto e sottile, lo battezzò.
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