Ascolta la puntata del podcast “Azzurro Cenere”:
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Enzo Bearzot è universalmente riconosciuto come “Il Vecio”, come se non avesse avuto un’infanzia o un’adolescenza, ma semplicemente fosse nato già stempiato, con il naso storto e la pipa in bocca. Un po’ come Enzo Ferrari, noto come il “Drake”, ma senza un’età definibile considerato dato che lo ricordiamo sempre con i capelli bianchi e gli occhiali scuri a nascondere uno sguardo feroce.
Nonostante il Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale li abbiano terribilmente segnati, entrambe queste due colonne dello sport italiano hanno avuto una fulgida giovinezza che ha consentito loro di diventare grandi e di conoscere appieno la propria disciplina.
La carriera di Bearzot inizia nel suo Friuli vessato dai danni lasciati dallo scontro fra i tedeschi e i sovietici che si sono impossessati per quaranta giorni di Trieste mettendo in dubbio il futuro dei territori attorno a sé, compresa Gorizia dove il giovane difensore muove i primi passi in Serie B.
Nonostante una prima annata caratterizzata da un ultimo posto nel girone B, i biancoazzurri vengono riammessi alla cadetteria anche per il 1947 permettendo così a Bearzot di farsi le ossa e mettersi in luce nonostante l’ennesima retrocessione in Serie C, questa volta confermata senza se e senza ma.
Il tenace friulano si trasferisce a Milano dove a chiamarlo è l’Inter che gli regala sì l’esordio in Serie A il 21 novembre 1948 nel match vinto per 3-1 con il Livorno, ma non gli offre continuità come confermato dalle sole diciannove presenze raccolte in tre anni di permanenza in maglia nerazzurra. Bearzot decide quindi di volare in Sicilia dove si mette finalmente in luce grazie alle 95 presenze e i cinque gol realizzati in Serie B con la squadra etnea tanto da valere la chiamata del Torino, alla ricerca di una ricostruzione dopo la tragedia di Superga.
Lì il friulano vive una vera e propria seconda giovinezza diventando un punto fisso per i granata che vedono in lui la figura di un “allenatore in campo” destinato a far crescere i più giovani e aprire un ciclo se non alla pari, ma che almeno si avvicini a quello aperto da Valentino Mazzola e compagni. La situazione non è delle più facili, il Grande Torino non c’è più e ripetere quegli exploit diventa quasi impossibile, ma Bearzot si mette in luce a centrocampo tanto da ottenere la chiamata della Nazionale in vista del match contro l’Ungheria in programma il 27 novembre 1955.
A Budapest si svolge il primo incontro della Coppa Internazionale, una sorta di Europeo ante litteram che vede la presenza delle principali Nazioni della Mitteleuropa a cui si aggiunge l’Italia, reduce dall’eliminazione ai gironi ai Mondiali andati in scena l’anno precedente in Svizzera. Come il Torino, anche la compagine guidata da Alfredo Foni è alla ricerca di una propria identità e per farlo è costretta a testarsi con quella che viene considerata la squadra più forte al mondo, guidata da Ferenc Puskás.
Il commissario tecnico decide di affidare proprio all’esordiente Bearzot il compito di marcare il centravanti magiaro, capace di realizzare oltre settecento reti in gare ufficiali e diventare l’incubo di ogni difesa. Vero che Puskás è reduce dal “Miracolo di Berna” dove ha visto svanire sotto i suoi occhi il sogno mondiale di una squadra in grado di impartire una dura lezione ai “maestri” inglesi, ma rimane comunque Puskás e per Bearzot si prepara una giornata da incubo.
Tutti pensano a un pomeriggio da paura per il giocatore del Toro, invece Bearzot resiste nonostante un costante assedio magiaro che dura oltre ottanta minuti con gli azzurri che non riescono mai a farsi vedere di Lajos Farago, costretto a saltellare sulla linea di porta per scaldarsi dal freddo. Lajos Tichy e Zoltán Czibor sono un incubo per Rino Ferrario e Sergio Cervato, ma sino all’ottantunesimo la porta di Giovanni Viola rimane inviolata, complice anche un ottimo Bearzot che non lascia spazi di azione a Puskás.
Quando il traguardo sembra ormai vicino ecco che l’Ungheria che sfrutta un tiro teso di József Tóth centra in pieno la testa dell’uomo più atteso e fa svanire tutte le speranze azzurre. Per l’Italia il destino è segnato, gli azzurri abbassano la propria concentrazione e su cross di Czibor, capace di scartare due difensori al limite dell’area piccola, l’Ungheria raddoppia con Tóth guadagnandosi il successo.
Da qui nasce una leggenda secondo cui Bearzot sia stato “distrutto” dalla classe di Puskás diventando il capro espiatorio perfetto per una sconfitta che, soltanto guardando il risultato, può sembrare un tracollo. Nella realtà il friulano si è dimostrato all’altezza del proprio avversario e, soltanto per scelte prese dalla commissione tecnica, non avrà più modo di vestire la maglia azzurra. Un esito immeritato per un calciatore che vestirà per altri nove anni la maglia del Torino con una piccola parentesi all’Inter, ma soprattutto con la fortuna di indossare quella fascia da capitano che era stata di Valentino Mazzola.
Poco male per il “Vecio” che l’azzurro lo conoscerà molto bene a partire dal 1969 quando, in qualità di assistente di Ferruccio Valcareggi, guiderà per sei anni la Nazionale Under 23 peraltro vivendo in prima persona la “partita del secolo” andata in scena allo stadio Azteca di Città del Messico il 17 giugno 1970. Il tutto prima di prendere in mano le redini della compagine tricolore a partire dal 1975 e diventando il ct più longevo con 104 panchine, ma soprattutto un titolo mondiale che lo ha reso una figura di culto per un intero paese.