Il 36enne della provincia di Alicante è arrivato al numero 3 del mondo nel 2013, ha vinto 27 tornei fra terra e cemento, che gli hanno fatto superare i 31 milioni di dollari di soli premi ufficiali, ma non ha mai festeggiato un titolo nei Majors, dove ha raggiunto solo una finale, al Roland Garros 2013, con due semifinali agli Australian Open e due agli Us Open, e due quarti a Wimbledon. Delusioni record, visto che, con le 727 vittorie sull’Atp Tour, dopo 32 anni, ha superato Brian Gottfried come giocatore che si è aggiudicato più partite senza però sfatare il tabù Slam. Una delusione non compensabile coi i tre successi in coppa Davis. Anche se l’amico/nemico Rafa Nadsal l’applaude convinto: “Ci sono tanti giocatori peggiori di lui che hanno vinto uno Slam”. Per alleviare i sussurri sul marchio di gran perdidòr del piè veloce spagnolo. Ragazzo bravissimo, lavoratore instancabile, esempio di comportamento, formichina laboriosa che, troppo spesso, si è vista rovesciare con un colpo solo dell’avversario tutto l’enorme e faticoso lavoro che aveva prodotto lui in ore e ore di corse impetuoso per tutto il campo.
Il piccolo-grande David, col suo appena 1.75 in un tennis sempre più dominato dagli altri e potenti, ha fatto piangere tutti i più forti, prendendoli per stanchezza, rimandando sempre un’altra volta la palla di là del net, ribattendo qualsiasi servizio – “E’ la miglior risposta del circuito”, ha sempre sostenuto Federer – e trovando sempre il punto debole dell’avversario, con quella sua irrefrenabile e quasi proverbiale transizione difesa-attacco che lo portava spesso a finire il punto a rete, pur non possedendo una gran volée. Ma, come un torero, cinico e freddo, infilzava l’ultima banderilla al toro ormai esausto, come fosse a una corrida.
La partita emblematica e indimenticabile della frustrazione di Ferrer negli Slam e contro i grandi avversari rimarrà la semifinale degli Us Open 2012 quando stava dominando Novak Djokovic per 6-2 e forse avrebbe anche convinto “il campione di gomma” serbo a un ritiro prematuro, per come gli prendeva il tempo e lo estenuava, nella giornata ventosa e foriera di pioggia. E invece, all’improvviso, mentre sui campi esterni di Flushing Meadows ancora si giocava, gli organizzatori evacuarono in un battibaleno il centrale per paura del tifone, rinviando la partita al giorno dopo. Quando Nole dominò, soffocando il sogno del povero Ferrer. Forse il migliore che si sia mai visto. Che, nel 2017, all’improvviso ha finito la benzina, anche perché gli sono venute meno le gambe, per via di una lesione cronica ai tendini. Quanto gli costò quella confessione: “Ho corso per davvero tanti chilometri, non riesco più a recuperare come prima e il fisico non è più lo stesso. Devo allenarmi in modo diverso”. Era già un addio, che ha procrastinato fino a ai primi di maggio a Madrid. Di lui si ricordano alcune frasi-chiave. Tipo: “Sono il peggior top 100 di sempre”. O anche: “Sono diventato un tennista migliore da quando mi sono rilassato e ho accettato i miei difetti. A volte manchi mentalmente perché non accetti gli errori che fai, o non accetti che gli altri siano più bravi. Ma i campioni non cercano scuse, questo è quello che li rende grandi”.E soprattutto: “Le partite spesso dipendono da un punto. I più grandi fanno la differenza perché riescono a controllare la pressione proprio in quei momenti. Rafa è il migliore tennista della storia, come mentale”.
Ciao, David Ferrer, che saluti il tennis dopo una vita – dal 2000 – da mediano, nata forse in quello sgabuzzino dove l’aveva rinchiuso il primo maestro perché non voleva allenarsi fino alla nausea. O da papà che lo trascinò in cantiere per fargli toccare con mano la differenza fra un muratore come lui e un tennista come poteva essere il suo ragazzo.
*articolo ripreso da federtennis.it