Il ricordo struggente del Grande Torino non smette mai di far emozionare chiunque abbia sentito parlare della squadra che segnò non solo un’epoca calcistica, ma un pezzo di storia italiana, con le sue imprese e i suoi eroi: la gioia per le prime vittorie, il dolore degli anni della guerra e della distruzione, la rinascita dello sport e di una intera nazione, con quella bandiera granata a rappresentare lo spirito di chi, in campo e fuori, non si arrende mai. L’anniversario della tragedia di Superga anziché diventare, col tempo, la stanca celebrazione di un ricordo a poco a poco più sbiadito, fa ravvivare sempre più una fiamma dal colore granata, come la maglia dei giocatori che vinsero 5 scudetti consecutivi, e non è più il racconto di una leggenda, ma il perpetuarsi e il rafforzarsi di una passione che non può avere fine. E il senso di questa “eternità” lo si trova in una testimonianza d’eccezione, quella di Indro Montanelli. Il suo articolo sulla scomparsa del Grande Torino appare sul Corriere della Sera il 5 maggio del 1949, il giorno dopo lo schianto dell’aereo di ritorno da Lisbona, dove Valentino Mazzola e compagni avevano disputato la loro ultima partita. Negli anni Sessanta questo articolo era inserito nell’antologia di Italiano nella scuola media, insieme ai racconti dei più grandi scrittori della letteratura. Ne fu tratta anche una pièce teatrale che tuttora viene rappresentata. Rileggerlo adesso può far capire ancor meglio lo sgomento di quei giorni, far tornare indietro nel tempo e trovarsi per incanto fra la folla muta e incredula, incapace persino di immaginare parole per chiedere se tutto quello fosse realmente accaduto, per dire a se stessi “non è vero, non è vero”. Ma la cosa più bella è che Montanelli comincia e finisce l’articolo innalzando a protagonisti tanti ragazzini che giocano a pallone per strada. In loro si trasfigurano i giocatori caduti del Grande Torino, a loro si trasmette l’anima di una squadra che, seppur scomparsa, grazie a quei ragazzini risorge e vive per sempre.
Gennaro Bozza
Nel grande stadio dell’aldilà
Mazzola passa a Gabetto
Milano, 5 Maggio
Oggi, affacciandomi alla finestra, non ho visto giocare a calcio i ragazzini in piazza San Marco, sulla quale guarda la mia casa, tra i resti delle bancarelle che vi tengono mercato il lunedì e il giovedì. In genere, ce n’è una nuvolaglia, affaccendati a correre dietro palle, di tutte le categorie e di tutte le età: scolari delle scuole medie con la cartella dei libri abbandonata in un angolo e le dita macchiate d’inchiostro, garzoni di fabbro con la tuta sudicia di morchia, apprendisti parrucchieri con la chioma lustra di brillantina. Li conosco tutti dai nomi di battaglia che si son dati: «Mazzola» è un tracagnotto biondastro dalla faccia larga e ridente; «Gabetto» un bruno esile e nervoso che ha la specialità di non scomporsi i capelli nemmeno nelle fasi più focose del giuoco; «Bacigalupo» è quello che, in genere, difende la porta, sorprendentemente agile per la sua rotonda corporatura; eppoi «Castigliano», «Menti», «Loik», «Ballarin», «Maroso», e così via. Ci sono, ci sono stati tutti i giorni, in piazza San Marco, a giuocare: non so da quando, forse da sempre. Si allenano per la grande partita della domenica, quando si mettono in maglia e mutandine, e allora, ai margini, si raccoglie anche il pubblico dei passanti a guardare. In una di queste partite, uno di essi che si chiamava «Grézar», fu degradato sul campo: cioè i compagni gli tolsero quel nome, e gliene diedero un altro, più modesto.
Oggi la degradazione è stata generale. Sparpagliati a gruppetti, ai quattro angoli della brulla piazza, a semicerchio intorno a uno che leggeva un giornale sgualcito, i ragazzini di San Marco avevano ripreso ognuno il proprio nome di tutti i giorni, quello col quale il maestro, a scuola, li chiama a recitare la poesia di Aleardi e il padrone della bottega li iscrive nel sindacato dei «praticanti». E così «Mazzola» non era più che Dubini Mario, alunno della «quarta B». Era lui che leggeva il giornale ai compagni, sedutigli attorno in semicerchio, e ogni tanto approfittava della ciocca di capelli che gli scendeva sulla fronte per ritirarsela su, e passarsi, intanto, la mano sugli occhi. I suoi compagni più piccoli quelli che, in genere, venivano adibiti, nelle partite della domenica, a raccogliere le palle che uscivano in «fallo laterale» (quante volte ho rabbrividito, alla finestra, vedendoli guizzare fra un tram e un’automobile!) e che aspiravano a diventare, a loro volta, Loik, Gabetto, Bacigalupo e Maroso, stendevano, a una a una, per terra, come un generale distende la sua truppa, le figurine dei popolari giocatori, di cui ognuno di essi è, più o meno, ricco collezionista. C’era un po’ di vento, e il pulviscolo di rena, che esso trascinava nella sua corsa, ogni tanto ricopriva una di quelle figurine, minacciando di sotterrarla; ma subito il collezionista la spazzava via, passando col dorso della mano una lieve carezza sul cartoncino e poi soffiandoci sopra, puntualmente. Sono ancora gli unici, i ragazzini di piazza San Marco e di tutta Italia che si ostinano a lottare contro i tentativi della rena di inghiottire i loro diciotto eroi. E le figurine che li rappresentano nell’atto di calciare la palla o di ghermirla al volo, continuano ad essere oggetto di un affettuoso e reverente mercato, seguitano a passare di mano in mano, come vivificati per l’eternità dalla rispettosa ammirazione che suscitano nei loro giovani emuli.
Per la partita del 22 maggio con l’Austria, se si farà, il collega Carosio, miracolosamente scampato al disastro, dovrebbe fare, per i ragazzi di tutta Italia, una trasmissione speciale, ribattezzando col nome degli scomparsi i loro sostituti. – Mazzola passa a Menti; Menti indietro a Castigliano…- dovrebbe egli dire al microfono; ché almeno ai ragazzi non sia tolta l’illusione dell’immortalità.
Sono appena cinque giorni che li abbiamo visti giuocare l’ultima volta, qui a Milano. La squadra era incompleta. Ci mancava anche il suo capitano, Mazzola. Ma presente era l’orgoglio della bandiera, e fu questo che non le consentì di ammainarsi. Quella sera, a Milano, serpeggiava lo sconforto perchè la squadra della città rivale si era cucita sul petto, proprio lì a San Siro, il suo quinto scudetto. E già domani l’erba comincerà a crescere sulla tomba di quei diciotto giovani atleti che sembravano simboleggiare una omerica, eterna, miracolosa giovinezza. Come possono rendersene conto i ragazzi di piazza San Marco e i giovani di tutta Italia?
Gli eroi sono sempre stati immortali, agli occhi di chi in essi crede. E così crederanno i ragazzi, che il «Torino» non è morto: è soltanto «in trasferta». Ma anche a noi, che con animo di ragazzi abbiamo sempre frequentato e seguitiamo a frequentare gli stadi, sia consentito immaginare i diciotto atleti del «Torino», «in trasferta». Oh, non ci è difficile raffigurarci il grande campo che, lassù, li attende: senza limitazione di posti, lastricato di erba eternamente verde e molle, senza macchie di nuda terra. La squadra campione, con tutto il suo orgoglio di bandiera, ha voluto recarvisi a carico pieno: non solo gli undici «titolari» ha condotto con sè; ma anche sette «riserve», e l’allenatore, e il massaggiatore, e il direttore tecnico, e perfino tre giornalisti. Vecchie conoscenze attendevano all’aeroporto quel velivolo carico di giovinezza e di speranza. E come facilmente le ravvisiamo! In prima fila Emilio Colombo, l’Omero dello sport italiano, forse l’unico tra noi che abbia serbato, sino a sessant’anni, intatta, la facoltà di credere nell’immortalità degli eroi. È lui, è lui: rossiccio in viso, alto e gagliardo, con lo stesso abito chiaro di gabardine con cui partì per l’ultimo «servizio», e, per la prima volta in vita sua, non si portò al seguito né un baule con sette vestiti, sette paia di scarpe e settanta camicie di ricambio, né una vasta collezione di saponi e profumi, né una vasca da bagno di caucciù. Accanto si tiene, in un gesto di affettuosa protezione, Attilio Ferraris che di poco lo precedette. Ferraris è ancora in «maglietta», perché in maglietta partì per la grande «trasferta», come Caligaris, mi sembra. Essi non rientrarono, infatti, negli spogliatoi, dopo l’ultima partita casalinga: dallo stadio di quaggiù a quello di lassù, tutto d’un fiato. E Neri? Eccolo lì, col suo lungo naso. Quella del «Torino» fu proprio l’ultima sua maglia, e non l’abbandonò che per ammantarsi di tricolore, dopo che i Tedeschi l’ebbero fucilato su una collina di Romagna. Ma ora rientrerà in squadra con i compagni; sarà il diciannovesimo campione d’Italia in quest’ultima definitiva «trasferta».
Ascoltate, ragazzi di San Marco e di tutta Italia, ascoltate la radiotrasmissione di Emilio Colombo, che ha ricevuto dalle mani di Carosio, per oggi, il microfono. Domani, poi, ne leggerete le fasi nelle corrispondenze di Casalbore, di Cavallero, di Tosatti, i fedeli bardi di tante imprese gloriose, ai quali lo sport concedeva il meraviglioso privilegio di serbarsi fanciulli sotto i capelli che ingrigivano. «Mazzola passa a Menti, Menti indietro a Castigliano… (e qui la voce si fa concitata, e i ragazzi di San Marco e di tutta Italia si stringono, con gli occhi dilatati dall’emozione e dalla speranza, intorno all’altoparlante)… Castigliano avanti di nuovo a Mazzola che dribbla uno… due… tre avv… goal… goal… ». Chi grida cosi, chi grida? Siete voi stessi, ragazzi, o il vecchio Colombo, l’unico tra noi che sia riuscito a serbare, intatta, sino a sessanta anni, la facoltà di credere negli eroi? O tutta la folla di quell’immenso stadio senza limitazione di posti in cui il «Torino» è andato a carico pieno (undici «titolari» e sette «riserve») a giuocare la sua ultima vittoriosa «trasferta»?
Triste è piazza San Marco, calva di alberi, con le sue gialle chiazze di terra senz’erba, con i suoi gruppetti di ragazzi spogliati dei loro nomi di battaglia e senza palla, solo con le figurine allineate tra le pozzanghere. Le due squadre che vi giuocheranno domenica hanno deciso di portare il lutto: un segno nero al braccio, sulla maglia. I passanti si fermeranno, come sempre, a guardare; ma invano tenderanno l’orecchio per udire: – Forza Maroso… bravo, Bacigalupo… – nelle fasi salienti della partita.
Domenica i giuocatori si chiameranno soltanto Dubini Mario, Rossi Francesco, Bianchi Giuseppe, e giuocheranno in silenzio, senza apostrofarsi. Domenica, otto giorni soli saranno trascorsi dall’ultima partita a San Siro dove il «Torino», solo a furia di orgoglio, si ricucì sul petto il quinto scudetto che inalienabilmente gli spetta (e voglio veder chi oserà portarglielo via) ma già i primi esili fili di erba saran cresciuti sulle diciotto tombe della squadra in «trasferta». «Forza Torino!», «Vinci Torino!».
Indro MONTANELLI