“Napoletano? E famme ‘na pizza!” Questo l’efficace titolo dell’ultimo libro (e spettacolo teatrale) di Vincenzo Salemme, nel quale vengono messi alla berlina gli stereotipi più comuni sui napoletani. In questi giorni di grandi festeggiamenti per il terzo scudetto della storia del Napoli, il rischio di cadere in facilissimi luoghi comuni è molto alto, anzi diciamo pure che ci stiamo cadendo quasi tutti. Napoli, con la sua storia e la sua cultura, merita molto di più di pizza, mandolino e mare fuori. Così come il Napoli, campione d’Italia non per la cazzimma di scugnizzi e munacielli, ma perché dietro ci sono state una visione lungimirante e una sapiente programmazione (via Koulibaly, via Mertens, arriva Kvaratskhelia: ‘chi è costui?’ – ci siamo chiesti in agosto…).
D’altra parte, però, anche irrigidirsi all’insegna del rifiuto degli stereotipi potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Perché ci farebbe perdere autentiche schegge di genialità, che entrano a pieno titolo nel patrimonio della cultura partenopea. Come la “torta Osimehn”, quel dolce allegro e leggero (nello spirito, non nella sostanza…) che riproduce la faccia del bomber nigeriano degli azzurri. Il volto è una farcitura di pan di spagna al cacao con una mousse al cioccolato fondente, guarnita dalla maschera ormai assurta a simbolo distintivo di forza e scaramanzia. I capelli dorati sono invece realizzati con scaglie di granella gialla e il campione è servito. Apprezzare questa originale sciccheria non significa certo dimenticare la capitale del regno borbonico, Castel dell’Ovo, il museo di Capodimonte, la basilica di San Giovanni Maggiore, la prestigiosa università Federico II.
Nelle celebrazioni di Napoli e del Napoli, siamo davanti a un bivio, a sinistra gli stereotipi, a destra un rigore fuori luogo, ma a ben guardare c’è una terza via, molto stretta, che ci mette in equilibrio fra questi due opposti. Facendoci apprezzare sia il Maschio Angioino sia la torta Osimehn, tracciando un parallelo tra il sacro vero del Cristo Velato con quello profano del murale di Maradona. Imboccare questo stretto sentiero significa perdersi nei vicoli dei Quartieri Spagnoli e poi, con lo stesso spirito leggero ma sensibile alla cultura, esplorare il cimitero delle Fontanelle, immaginandola una necropoli in festa, con i defunti che si sono stancati di sentirsi dire una terza volta “Che vi siete persi!“ e ora, tra bandiere e striscioni azzurri, festeggiano da un’altra parte, quella giusta, perché tra di loro a ballare e cantare c’è anche lui, El Diego. Lo vediamo felice mentre scherza col suo nuovo presidente, Ferdinando II di Borbone: “Maestà, è sicuro di essere ancora lei il Re delle due Sicilie?“…
Percorrere quella via stretta e magica significa ammirare dalle finestre dell’austero museo di Capodimonte lo spettacolo pirotecnico di botti e fuochi d’artificio che si riflettono sul golfo. Questo sentiero che conduce all’oro di Napoli accosta persino la perfezione stilistica del Cristo Velato di Sanmartino a quella dello spumeggiante gioco del Napoli di Spalletti. Il Napoli è campione, Napoli è vestita a festa, guai a ghettizzare negli stereotipi triti e ritriti una città e una società che trasudano cultura e organizzazione, ma attenzione anche a non perdersi folclore e genialità senza eguali nel resto del mondo. L’oro di Napoli è da entrambe le parti, nei dribbling di Kvaratskelya, nella sacralità del monastero di Santa Chiara, nella Spaccanapoli ricolma di gente in festa, negli arazzi del soffitto del teatro San Carlo. Milan, Inter e Juve applaudono un po’ tristi: quand’anche una di loro s’issasse sul tetto d’Europa, al massimo lanceranno una cotoletta rivista o un bicerin appena più dolce del solito…