Lo hanno schiantato. Di fatica. Al termine di una partita assolutamente fantastica. I Warriors sono 2-0 nella finale Nba contro i Cavs, e hanno trovato l’unico modo per fermare il più grande, LeBron James, mentre sta interpretando il ruolo di miglior giocatore di sempre al massimo della sua capacità tecnica e mentale. In gara-2, alla fine del terzo quarto, mentre il tabellone mostra l’incredibile punteggio di 102-88, LeBron si abbandona in panchina respirando quasi con difficoltà. Dopo una gara-1 certamente importante e coraggiosa (28 punti, 15 rimbalzi) ma macchiata da 8 palle perse e da una lettura non perfetta della gara, il Prescelto sta disputando una gara-2 assolutamente pazzesca. Da primo minuto ha attaccato il canestro dritto per dritto, nonostante a marcarlo sia spesso Kevin Durant, non tira quasi da tre, non sbaglia praticamente mai, è già a 27 punti, 10 rimbalzi, 14 assist dopo tre quarti.
Ma il ritmo imposto dai Warriors alla partita è insostenibile: se l’unica speranza per Cleveland di competere è, ovviamente, tener in campo James almeno 40 minuti su 48, magari qualcosina di più, l’intensità di gioco e di corsa di Golden State mina questa possibilità. E, nell’ultimo quarto, anche LeBron non è più un fattore decisivo mentre Durant, finora indiscusso mvp della finale (35.5 punti di media in due partite, più 11 rimbalzi, col 50% da tre punti) martella senza pietà, in attacco e in difesa, formando con Steph Curry (30 di media in due gare con 10 assist) una coppia pronta già ad entrare nella storia della pallacanestro. Ma adesso si va a Cleveland, già l’anno passato i Warriors erano 2-0 e sono finiti male. E ai Cavs sono finora clamorosamente mancati giocatori importanti, anche se di contorno ai big three, come Tristan Thompson, Zaza Pachulia, JR Smith, Channing Frye, utilizzato pochissimo. Ma più che le prestazioni individuali, la chiave della finale è il ritmo, la corsa, l’intensità incredibile, il numero dei possessi: riuscirà Golden State a mantenere lo stesso passo anche in trasferta? Se sì, il titolo è assegnato. Se LeBron riuscirà a imporre il gioco meno frenetico dei Cavs, tutto è ancora possibile.
Le finali Nba sono bellissime, anche se dominate finora dai Warriors. Non credo di ricordare delle sfide dove si è materializzata una simile qualità di passaggi che rende ancora più evidenti le clamorose qualità individuali dei giocatori. E, come sempre, attorno alla finale girano storie divertenti. E’ la mamma di Durant che scende in campo contro chi ha accusato il figlio di aver “tradito” Oklahoma City scegliendo i Warriors. E c’è Steve Kerr, l’allenatore di Golden State, in panchina in gara-2 dopo un’operazione alla schiena che lo aveva tenuto lontano dalla squadra dal primo turno dei playoff, per il dolore quasi insopportabile. Ma è Mike Brown, il suo vice che lo ha sostituito durante la lunga assenza, senza mai perdere una partita, a fare notizia perché è ancora sul libro paga dei Cavaliers, ormai avversari, che lo avevano richiamato per una sola stagione nel 2013 (era il tecnico che portò LeBron alla prima finale giocata da Cleveland, nel 2007 prima di passare ai Lakers) quando fu licenziato nonostante gli restassero ancora 4 anni di contratto e 20 milioni da prendere.
Così anche per la prossima stagione, Brown sarà pagato dalle tutte e due le finaliste. In realtà, gli restano anche degli spiccioli da prendere pure dai Lakers… Poi c’è Durant che incenerisce Rihanna, grande tifosa di LeBron, che in gara-1 avrebbe urlato “brick” (cioè mattone) su un tiro libero dell’ala dei Warriors beccandosi sguardi di scherno dopo una tripla (situazione che ha fatto impazzire i social network più della partita, ma che della quale Durant non si è quasi accorto)…
Le finali sono belle anche perché diventano un carrozzone dove il contatto tra le squadre e i giornalisti al seguito sono più frequenti e costanti. Succede che ogni giorno non di partita, meno quelli di viaggio, ci sia la possibilità di parlare con tutti i giocatori, i big e allenatore in conferenza stampa, gli altri in campo. E alla fine, il contatto e la necessità di trovare argomenti differenti porta a valorizzare storie meno consuete.
Io ho avuto la fortuna di seguire soprattutto gli anni dei Chicago Bulls e dei Lakers di Kobe e Shaquille, e devo ammettere che assistere a quei momenti lontani dalle gare fosse più divertente delle partite stesse. Non solo perché, ogni volta, partiva la caccia su dove fosse finito Dennis Rodman, a letto a dormire, a Las Vegas, con Madonna, sempre multato per le sue assenze alle “media sessions” istituzionali o perché Shaq inventava cose un po’ surreali. In assoluto, si aveva la possibilità di comprendere perché i più grandi lo fossero anche fuori campo. Come LeBron. Che quest’anno è uscito (giustamente) dalla corsa per l’Mvp ma ha vinto il Walter Kennedy Citizen Award, distribuendo con la sua fondazione borse di studio e aiuti per 1100 studenti a rischio in collaborazione con l’università della sua città, Akron.
Una delle storie finora più divertenti e interessanti l’ha pubblicata Espn in un articolo su Mike Brown. Che ha raccontato che a LeBron James, prima delle partite e mentre si prepara ad entrare in campo, piace ballare trascinando spesso i compagni. Brown, quando era a Cleveland, era combattuto di fronte a questa espressione apparentemente poco professionale della sua stella, ma alla fine accettò la cosa, pur non apprezzandola. Poi è arrivato a Golden State e lì s’è trovato ad allenamenti che sembrano dei musical, con musica costante a palla e giocatori che fanno sempre un tremendo casino anche prima e dopo le partite, una atmosfera ben poco ortodossa se non per un tecnico liberale come Steve Kerr.
Durant racconta che all’inizio, arrivati di fresco da esperienze ben differenti, lui e Brown si lanciassero occhiate chiedendosi dove fossero capitati. E che, quindi, sia stato doppiamente difficile per Brown guidare una squadra dalle abitudini così particolari quando Kerr non era in panchina per il mal di schiena. Del resto, cadono proprio quest’anno i 50 anni della Summer of Love, quando la baia di San Francisco venne invasa da migliaia di hippies pronti a cambiare il mondo predicando pace e amore, il Flowers power. E se Oakland, dove c’è la Oracle Arena, è idealmente lontana migliaia di chilometri dallo spirito che si respira attraversando il Bay Bridge, è dalla stessa parte della baia di Berkeley e della sua famosa università: è lì, ai tavolini dei bar, che Kerr e i suoi assistenti parlano di pallacanestro ma anche di politica e quel che succede nel mondo. Il risultato, è una pallacanestro senza respiro, apparentemente un po’ folle, che Kevin Durant ha reso ancor più micidiale. Che ha ammazzato di fatica, dopo tre soli quarti, il più grande di tutti. A Cleveland sarà un’altra storia?
Luca Chiabotti