In quattro giorni di “free agency”, cioè di mercato per quei giocatori in scadenza di contratto, la Nba ha già movimentato centinaia di milioni di dollari e spostato giocatori importanti. Ha cambiato squadra anche Danilo Gallinari, concludendo uno scambio che era già nell’aria ai tempi dell’All Star game, ed ora è dei Los Angeles Clippers con un accordo da 65 milioni in tre anni, che porterà lo stipendio di Gallo ben oltre i 20 milioni a stagione (dai 15 guadagnati a Denver). Peccato che ai Clippers non trovi più Chris Paul, andato a Houston da Mike D’Antoni, in quello che è stato il trasferimento più rumoroso fino a questo momento anche perché la sua coabitazione con James Harden, straordinaria sulla carta, farà ripartire da zero equilibri tattici e personali di una squadra tanto particolare come i Rockets, reduci da un’ottima stagione. E se al posto di Gallo, a Denver, è arrivato un plurimo All Star come Paul Millsap da Atlanta, dove invece è atterrato Marco Belinelli in uno scambio che ha portato a Charlotte uno dei giocatori più sopravvalutati della Nba, Dwight Howard, alla fine la notizia bomba finora è che i campioni di Golden State, dopo aver fatto firmare alla loro stella, Steph Curry, il più ricco contratto della storia della Nba, 201 milioni di dollari per 5 anni, sono riusciti a trattenere Kevin Durant, che ha accettato di guadagnare “meno”, cioè perdendo quasi otto milioni a stagione, cioè 53 milioni in due anni, per poter permettere ai Warriors di mantenere nel roster sia Iguodala che Livingston. Si sono impegnati con i loro free agent per 325 milioni complessivi restando così la squadra strafavorita per il titolo del 2018. Sono numeri che fanno girare la testa e che rendono sempre più improponibile il rapporto tra la Nba e il resto del mondo. Se pensate che quest’anno il salary cap medio, cioè il tetto di stipendi che ogni squadra non può superare se non vuole pagare un tassa “sul lusso” altissima, è stato fissato a 99 milioni di dollari e che, fatti i conti a spanne perché le cifre da noi non sono ufficiali, tutto il campionato italiano non arriva a sessanta (di cui un terzo solo con Milano), si capisce che stiamo parlando di pianeti differenti e sempre più lontani.
In questo mercato solo già caldo ma solo all’inizio, la notizia per me più intrigante è stato il licenziamento in tronco di Phil Jackson, il coach più vincente della storia della Nba, da presidente dei New York Knicks. Perché è la fotografia di quello che non andrebbe fatto e che i Knicks da decenni perseguono con pervicacia, quasi cercassero ogni modo per continuare ad andar male. Tutto, ovviamente, parte dalla società e dal suo proprietario, James L.Dolan, 62 anni, rampollo di una famiglia che ha fatto fortuna con le televisioni via cavo, sempre nell’ombra di babbo Charles edificatore dell’impero, ma che si è ritrovato con Madison Square Garden, l’arena più famosa del mondo nel centro di Manhattan, la tv Msg Network, i New York Knicks, i Rangers di hockey e altri spiccioli. Dolan figlio, noto per il suo carattere scostante, un passato di abuso di droghe e un’unica grande passione, la chitarra elettrica, è uscito dal buio nel nuovo millennio prendendo in mano direttamente alcuni gioielli di famiglia. E se i Rangers, che hanno vinto l’ultima Stanley cup nel 1994, sono comunque una presenza fissa nei playoff tanto da aver disputato la finale nel 2014, i Knicks sono un disastro anche se continuano ad essere la franchigia Nba con più valore: Forbes lo indica in 3 miliardi di dollari nonostante la squadra sia riuscita a conquistare i playoff solo 3 volte negli ultimi 13 anni.
In questo periodo hanno inanellato situazioni perfino grottesche (quando non da codice penale, come nel caso degli abusi sessuali dell’ex presidente, la leggenda Isaiah Thomas), con decine di milioni di dollari buttati nelle toilette del Garden, perfino troppo lunghe da raccontare. E sempre con una capacità di rovinare tutto in pochi minuti, come quando con Mike D’Antoni allenatore, che dopo due anni di rebuilding aveva riportato la squadra giovane e rinnovata ai playoff, hanno imposto Carmelo Anthony ricominciando tutto da capo. Da anni, però, Dolan, pur avendo una spiccata capacità (dicono) di farsi consigliare dalle persone sbagliate, non si occupa direttamente delle squadre. Nel 2014 ha ingaggiato Phil Jackson dandogli in mano la franchigia e carta bianca oltre un contratto da 54 milioni di dollari. Il risultato sono state tre stagioni fallimentari con un bilancio di 80 vittorie e 166 sconfitte: nonostante i due anni ancora di contratto, Jackson è stato licenziato. Alla fine, verrebbe da dire, povero Dolan: cosa poteva fare di meglio se non affidare alla più grande leggenda vivente, 11 titoli Nba vinti, la sua franchigia?
Phil Jackson lo conoscete tutti. Ha vinto più di tutti, ha scritto libri meravigliosi, ha pervaso il suo lavoro con la filosofia zen, dei nativi Lakota, facendo diventare il gioco qualcosa di più grande e profondo. Avendo avuto la fortuna di seguire le sue stagioni vincenti a Chicago e Los Angeles, ricordo le sue conferenze stampa come qualcosa quasi di mistico. Peraltro, è una persona che sa essere ferocemente “cattiva”, sprezzante con i più deboli, ovviamente strapiena della sua grandezza. Il fatto che gli abbiano affidato i Knicks non è stata una scelta sbagliata, evidentemente. L’errore è che abbia voluto una squadra che giocasse secondo i suoi principi tecnici senza che la allenasse lui che, per età e problemi fisici, non è più in grado di sopportare una stagione logorante come quella Nba. Quindi ha preso allenatori, prima Derek Fisher poi Jeff Hornacek che non s’è mai capito bene quale autorità e autonomia avessero creando i presupposti di ogni storia di sport che va a finire malissimo: la confusione tra ruoli, la mancanza di una autorità definita, la possibilità data ai giocatori di palleggiarsi tra varie persone. La questione del famoso “triangolo”, cioè il tipo di attacco che ha portato al successo i Bulls e i Lakers di Jackson, malvisto dai giocatori di oggi come Carmelo Anthony, implementato per interposta persona in un modo che deve aver fatto piangere dalla disperazione il suo creatore Tex Winter, mentore di Jackson, ha certamente contribuito al disastro.
Ora i Knicks sono in mezzo al guado, con giocatori e un allenatore scelti da Jackson per la sua pallacanestro anche se lui non c’è più. Avranno vita breve. Ma i Knicks possono permetterselo, guadagnano milioni ogni volta che aprono i cancelli del Madison Square Garden anche se non vincono un titolo dal 1973. Diverso è da noi, quando i tanti presidenti che vogliono fare i manager e anche gli allenatori di fatto delegittimano i loro dipendenti davanti ai giocatori. Almeno Dolan guadagna miliardi di dollari e se ne sta felice a suonare la chitarra. Qua così si perdono solo milioni di euro e occasioni per crescere.
Luca Chiabotti