Tralasciamo il forte, e comprensibile, dispiacere degli appassionati e degli organizzatori della quarta tappa stagione dello Slam, sul cemento di Flushing Meadows, a New York. Tralasciamo anche le prospettive sempre più rosee che si aprono nel pronostico di una finale da favola, Federer-Nadal, assolutamente impronosticabile un anno fa quando, in quest’epoca, erano tutt’e due inabili. Tralasciamo pure il capitolo Murray, il numero 1 del mondo che ha lasciato a sua volta Wimbledon in panne – il gemello del maggio ’87, Djokovic, per il gomito, lo scozzese per l’anca – e di cui si sono perse le tracce, anche se ha rimandato il rientro alle gare sul circuito del cemento nordamericano. Quello che colpisce maggiormente è che i giocatori di vertice, come i vecchi saggi, hanno riscoperto un toccasana, semplice quanto efficace, nello sport come nella vita: il riposo.
Nel tuffarci in questa professione, ricordiamo perfettamente le parole d’oro di alcuni, come Mario Belardinelli, il maestro dei ragazzi di Formia – Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli – il formidabile gruppo che portò la prima ed unica coppa Davis del 1976. Guardando gli svedesi che si affacciavano col gioco sempre più fisico e ripetitivo, guidati dal vichingo Bjorn Borg, ripeteva sempre: “Si faranno male, questo gioco è un gioco distruttivo, oltre che brutto”. E ai suoi ragazzi – tutti e quattro con uno stile di gioco diverso, personale – imponeva un programma preciso di preparazione fisica, tennis, riposo, tornei, e poi ancora e ancora, in un ciclo continuo che culminava in due-tre puntate chiave, fra cui, negli anni ’70-’80, spiccavano Roma e il Roland Garros.
Federer ha confessato che lui, come tanti altri, giocherebbe sempre e comunque, ma che il primo, serio, infortunio della carriera, gli ha insegnato che “la salute è la prima cosa”. Una grande massima dei nostri padri. E che per preservarla, bisogna fermarsi, ogni tanto, per sforzarla qua e là, ed allungarsi la carriera. “Anche ai 40 anni”. Perché no? Da cui la fantastica rinascita dopo sei mesi di volontario stop, con i due Slam conquistati quest’anno, e la nuova sfida a giocare, ora, anche un altro mega torneo prima degli Us Open, a Montreal. Rinascita che è stata facilitata anche dal fatto che i rivali più giovani hanno tutti bucato e sono rientrati ai box, traditi dal loro stesso gioco fisicamente troppo dispendioso. Rinascita che ora il grande rivale di sempre, Rafa Nadal, campione dei rientri anche drammatici in bacino di carenaggio, vuole interrompere sul cemento di New York.
Nel suo caso, a differenza di Roger, entriamo nel campo del miracoloso, del paranormale, dell’extraterrestre: quale umano salterebbe e correrebbe come il mancino di Maiorca, dopo tanti anni di salti e corse allo stremo, e dopo aver addirittura accusato la Sindrone di Hoffa al ginocchio sinistro? Si sa, la volontà porta a superare qualsiasi ostacolo, e quella dello spagnolo è la più forte di tutti, come l’attitudine agonistica e la duttilità tecno-tattica. Djokovic e Wawrinka non ce l’hanno fatta, per correre e saltare domani. In attesa delle novità di Murray.
Vincenzo Martucci