L’uomo dei sogni ha fatto un altro miracolo. Delpo, al secolo Juan Martin Del Potro, ci ha regalato un’altra favola della sua storia infinita di sgambetti e rivincite col destino. Una storia umana, prima ancora che tennistica, che affascina anche gli avversari, li ammalia, li avviluppa, li commuove, li traduce a rango di alleati, e li costringe infine a cedergli, rinnovandosi di volta in volta, con un capitolo nuovo. Il prossimo è nei quarti di quegli stessi Us Open dov’ha girato la prima pagina del libro Cuore del tennis di cui è assoluto protagonista, contro quello stesso Roger Federer che rimontò e batté a sorpresa nella finale del 2009. Spezzando l’incantesimo, diventando il primo ad aggiudicarsi uno Slam al di fuori dei Fab Four (Federer, Nadal, Djokovic, Murray) dal Roland Garros 2003 agli Us Open 2013.
Di più, rimontando ancora una partita praticamente persa, da due set sotto contro un avversario più giovane e pimpante come Dominic Thiem (che, fino al 6-1 6-2 aveva spazzato il campo coi suoi imparabili fendenti), e poi cancellandogli due match point con due ace, e quindi alzando le braccia al cielo al quinto set, si conferma l’eroe del popolo. L’unico, insieme al biglietto della Lotteria e del Superenalotto, che possa davvero concretizzare i nostri sogni più azzardati, un eroe romantico e coraggioso che non guarda alla realtà e la trasforma, di forza, contro tutti e tutti, utilizzando come clava la bacchetta magica dello sport. Come noi umani non riusciamo nella nostra vita quotidiana, tiranneggiati dal capufficio e drogati dal quieto vivere, e dall’italico, fantozziano, “tengo famiglia”.
Di più ancora. Perché Delpo, il gigante argentino di quasi due metri col vocino flebile e i modi gentili, che, nel pieno del suo match esplosivo contro Thiem, scherza a bordocampo sull’1-6 2-6 2-0 con l’ex collega Mardy Fish, ora telecronista, e “gigioneggia” col pubblico, coi raccattapalle, con la vita stessa, sfoderando una freddezza impressionante, è caduto e si è rialzato, più e più volte, rimontando infortuni ed operazioni, crolli in classifica e di forma, ritrovando magicamente sé stesso solo in grandi match, con grandi avversari, in grandi tornei, come gli Slam, i big Four, le Olimpiadi e la Davis. Quando, all’improvviso, per miracolo, qualcuno Lassù, che lui ringrazia sempre – per onore della verità – dopo ogni partita, lo guida attraverso scorciatoie divine verso soluzioni insperate e inaudite.
Stavolta, a New York, era influenzato, febbricitante, sempre più aggrappato al suo mitico uno-due servizio-dritto, con un gambone nel baratro di un’umiliante sconfitta in due set e con pochi games in tasca, depresso e preoccupato da un time-out medico. Ma, appena Thiem gli ha concesso uno spiraglio ci si è infilato e l’ha trasformato in uno squarcio, volando il terzo set. E quando l’erede di Thomas Muster, che proprio non riesce a trovare il ritmo-Slam, si è distratto ancora, dopo il nuovo sprint fino al 5-2 al quarto set, e non ha affondato sull’acceleratore per chiudere il conto, lui ha reagito con la rabbiosa e misteriosa forza delle belve ferite, del campione, del semidio. E, cancellati con altrettanti ace i due match point contro, è salito sul tappeto volante del tifo del Grand Stand, tutto argentino, strappando il decisivo tie-break e l’ineluttabile 6-4 finale. E scatenando gli ineluttabili pianti, suoi e dei tanti, in tribuna e davanti alla tv, che si fanno – fortunatamente – commuovere da una storia di vita e di sport.
“Ho pensato di ritirarmi – ha raccontato poi Del Potro al microfono in campo – ma ho visto lo stadio pieno e tutta quella gente che faceva il tifo per me, e ho deciso di andare avanti. Questo, per me, è un torneo speciale, ritirarmi durante il match mi avrebbe lasciato un sapore amaro”. Parole che chiamano altre lacrime e tanti pensieri, sui giovani colleghi che scappano, che non resistono alla pressione, che giocano per soldi, che rispondono alla legittima frustrazione dell’atleta e dell’uomo insultando. Mentre “Palito”, come lo chiamavano da ragazzo perché era alto e magro come un palo, sorride e sorride ancora, come il gigante buono delle nostre merendine di bambini. Quello dei nostri sogni più belli e inconfessabili. Grazie, Delpo, grazie ancora.
Vincenzo Martucci