È l’Epifania del 1975, un lunedì sera per la precisione: le festività natalizie stanno per finire. L’indomani sarà tempo per tutti di tornare alla propria routine. O, meglio, tutti eccetto che qualche fortunato. Raffaella Maria Roberta Pelloni, o più semplicemente Raffaella Carrà, sta tenendo, infatti, incollati gli italiani alla TV per l’ultima puntata di Canzonissima. Con il biglietto della Lotteria in mano, tutti aspettano di conoscere chi diventerà l’Onassis d’Italia, intascandosi la bellezza di 200 milioni di lire.
Intanto, a 2 mila chilometri di distanza, sulle rive del fiume Trent, c’è chi il lavoro lo ha appena ritrovato ed è già indaffarato. È Brian Clough: l’ex cannoniere di Middlesbrough e Sunderland ha appena firmato un nuovo contratto da tecnico. Nessuno, in quel giorno d’inverno, può immaginare che la pietra d’angolo di una delle più straordinarie epopee calcistiche sta per essere posata.
A quell’epoca, i Garibaldi Reds – che devono la scelta dei loro colori sociali alle camicie rosse indossate dai Mille capitanate dall’eroe dei due mondi – non stanno navigando in acque tranquille. L’inizio degli anni ‘70 è senza dubbio il momento più cupo della loro storia ultracentenaria. Uno dei club nati dal brodo primordiale del calcio, capace di alzare al cielo di Londra 2 FA Cup – nel 1898 e nel 1959 – e di dare vita ad un emozionante testa a testa con lo United al termine della stagione del 1967, è relegato in Second Division – oggi Championship – a combattere nelle sabbie mobili della zona retrocessione.
L’ennesima battuta d’arresto in campionato, nel sentitissimo derby con il Notts County, convince i piani alti di City Ground a dare uno scossone all’ambiente: fuori lo scozzese Allan Brown, reo di usare troppo poco il bastone in favore della carota nei confronti della squadra, e dentro Brian Clough. Una chiamata che diventerà una scalata verso il paradiso. Partendo dagli inferi, però. Nonostante un titolo inglese vinto con il Derby County due anni e mezzo prima, il tecnico non gode del sostegno della critica. Quella inclinazione spigolosa, burbera, al limite dell’arroganza e della sicumera, non gli ha mai dato una mano a farsi grandi alleati nel mondo del pallone. E così il mister era stato allontanato dalle grandi piazze troppo sbrigativamente, lasciato a piedi, a soli 44 giorni dal suo ingaggio, dall’allora imbattibile Leeds.
Ma il tempo è sempre galantuomo: il genio e l’occhio di falco in materia tecnico – tattica di Brian Clough ritrovano il terreno fertile per rifiorire proprio a Nottingham. In Inghilterra, prima, e in Europa, dopo. Brian non lo sapeva ma stava per rivoluzionare il football con due generazioni d’anticipo. A chi glielo chiedeva, diceva di sé stesso:
“non penso di essere il miglior allenatore in circolazione, ma sono certamente nella top one”.
Da Top One allo Special One di mourinhana memoria, le analogie si sprecano.
Al Forest, “The Football Genius”, altro eloquente soprannome del nativo del North Yorkshire, non perde tempo e impone subito il suo stile inimitabile: pronti via fa togliere dal mercato l’ala John Robertson, che diventerà una pedina fondamentale del suo scacchiere. «Il Picasso del calcio non si vende» disse a pochi giorni dal suo arrivo a Nottingham: qualche anno più tardi Roberston, che pennellava cross a raffica, servirà un assist calibrato al millimetro per la rete che varrà una Coppa dei Campioni. E 12 mesi più tardi sarà l’autore del gol vittoria nella seconda finale continentale. Un bel modo per ripagare la fiducia del tecnico.
Riesce a trattenere anche il metronomo del centrocampo, John McGovern, ovviamente scozzese, e nel giro di qualche settimana ribalta da cima a fondo la squadra; la ringiovanisce e crea tutti i presupposti per far sbocciare i germogli della sua innovativa idea di gioco. La “palla lunga e pedalare” tipica del gioco britannico viene messa al bando. In allenamento il mantra è:
“Se Dio avesse voluto farci giocare a calcio nel cielo, avrebbe messo l’erba lassù”.
Il pallone a terra diventa l’unica opzione, con ampie manovre intervallate da fulminee verticalizzazioni.
Dallo spettro della Third Division ad una salvezza tranquilla, il Nottingham riesce a mantenere la categoria al termine della stagione. Dopo un anno di assestamento e l’arrivo dal Coventry di Larry Lloyd per rinforzare la retroguardia, la squadra è pronta al salto di qualità: in poco più di 18 mesi il gioco dell’undici di Clough è diventato scattante, visionario come il suo tecnico.
Per affrontare al meglio la First Division, i Garibaldi Reds prendono il portierone Peter Shilton dallo Stoke City e Kenny Burns dal Birmingham. Questi due uniti a Lloyd comporranno un pacchetto arretrato impenetrabile. Ventiquattro reti subite in quarantadue partite, diventando la difesa meno battuta del campionato: solide fondamenta per una marcia trionfale che vale al Nottingham il primo storico titolo di Campione d’Inghilterra, conquistato con 7 lunghezze di vantaggio sui reds di Liverpool. Il pubblico britannico è sbalordito: mai si era vista tanta qualità in campo. Un paio di bande bianche laterali sulla casacca e tutti avrebbero gridato al miracolo: l’Ajax di Cruijff sta palleggiando all’ombra della foresta di Nottingham. Invece erano i Garibaldi, bifolchi arrivati dalla seconda serie diventati improvvisamente degni delle luci della ribalta.
Qualche anno prima, Brian Clough lo aveva già fatto con il Derby County: diventare campione della First Division da matricola. Con i Forest ha alzato l’asticella, non lasciando nemmeno le briciole agli avversari e confermando la superiorità dei Tricky Trees con la vittoria in Coppa di Lega, per una doppietta da impazzire. Senza dimenticare la conquista del Community Shield contro l’Ipswich Town all’inizio della stagione successiva, con un perentorio 5-0 che non lascia spazio a troppe interpretazioni. Ma questa volta l’opera di Clough non si sarebbe fermata sulle sponde della Manica.
“Se teniamo noi il pallone, non possono farci male”
Clough parlò così alla squadra dopo gli accoppiamenti di Coppa dei Campioni. E andò esattamente così: il Liverpool non fece nulla, né all’andata, vinta per 2-0 dal Forest tra le mura amiche, né al ritorno, dove lo 0-0 avrebbe confermato l’ennesima missione compiuta dagli uomini di Robin Hood. L’Aek Atene negli ottavi di finale e il Grassophers nei quarti si fecero pallidi pallidi e piccoli piccoli davanti alla manovra avvolgente degli inglesi che, senza troppi patemi e trascinata da un Gary Birtles sugli scudi, arrivarono in carrozza in semifinale.
Ad aspettarli il Colonia di Weisweiler, un cliente scomodo. E infatti nella gara di andata la banda di Clough stona un po’ troppo, non riuscendo a leggere il solito spartito: gli avversari suonano a ripetizione il campanello della porta di Shilton, scardinandola per tre volte. In un City Ground dalle tetre atmosfere simili ad un cimitero in un romanzo gotico, i padroni di casa riacciuffano il match chiudendo sul 3-3, ma con il passaggio del turno seriamente compromesso.
Quattordici giorni dopo in Germania gli strumenti vengono accordati a dovere, con il Nottingham che regala ai circa 40 mila sulle tribune una delle sue migliori tonalità di rosso: magistrale padronanza della gara, squadra corta e scattante come un kart capace di tenere ad un livello sempre elevato il ritmo di gioco. Il muro tedesco crolla sotto i colpi degli ospiti, proprio come accadrà qualche tempo dopo, il 9 novembre 1989, non a Colonia ma a Berlino. Il Nottingham sta volando in finale.
All’ultimo atto europeo i Forest arrivano da secondi in First Division, ormai lontani dall’irraggiungibile Liverpool. L’incontro, da disputare ancora in terra teutonica, a Monaco di Baviera, sarà deciso da un giocatore portato lì dal fato e da una scelta chirurgica del board britannico durante la finestra invernale del calciomercato. A febbraio, nonostante un attacco in palla, i Reds decidono di non accontentarsi e di incrementare la bocche da fuoco sferrando un colpo decisivo per l’andamento della stagione.
All’ultimo giorno utile per il tesseramento in Coppa dei Campioni approda a Nottingham un tale Trevor Francis, venticinquenne, viso che non avrebbe certo sfigurato su una copertina degli Who, prelevato dal Birmingham per 1 milione di sterline, un record. Prima di diventare una star blucerchiata, la più osannata a metà anni ’80 dalla curva Sud di Marassi, l’attaccante di Plymouth si trasforma nell’idolo del popolo Forest.
Sceglie così la serata ideale per guadagnare le luci della ribalta: la finale di Coppa dei Campioni. Il cross è di Robertson – quello sul mercato all’arrivo di Clough – la testa è di Francis, quello arrivato sul gong del mercato di riparazione: la rete che si muove è quella del Malmö, lo sfidante di serata.
Dal piccolo borgo delle Midland Orientali parte un boato che investe tutto il Vecchio Continente. Shilton sarà spettatore non pagante. Al triplice fischio il Nottingham è campione d’Europa, il primo – e uno dei pochi – underdog capaci di scrivere il proprio nome nella bacheca. L’unico a riuscirci per ben due volte, di fila.
L’anno successivo il percorso sarà ancora degno dei migliori peana. E con il solito brivido alla tedesca. Ai sedicesimi il Nottingham passeggia sia contro l’Östers del mitico Thomas Ravelli, iconico portiere vichingo con problemi di calvizie e dalle origini trentine, sia agli ottavi con i rumeni dell’Arges Pitesti, arrivando senza troppi scossoni ai quarti di finale. Dove pesca la Dinamo Berlino, al di là, verso Est, di quel muro che dovrà cadere una seconda volta. Al City Ground, dopo i primi 90 minuti, è notte fonda per i padroni di casa piegati 0-1.
Serve un’altra impresa in terra germanica che arriverà puntuale, sempre sull’asse Robertson-Francis: l’esterno insacca un tiro dagli undici metri, la punta, con la sua doppietta, rimanda al mittente tutte le critiche subite dopo la gara di andata. In semifinale saranno i “cugini acquisiti” dell’Ajax a subire l’onda innovativa di questi mimi: gli allievi battono i maestri e volano, nuovamente, in finale.
Si va al Santiago Bernabeu, nemmeno a dirlo, contro una compagine teutonica. Questa volta dell’Ovest: l’Amburgo di Kevin Keegan. I Garibaldi ci arrivano con la lingua di fuori e con il fardello delle critiche: fuori al 4° turno di FA Cup, in campionato la squadra naviga in quella specie di terra di nessuno che sono la quinta e la sesta posizione. Come se non bastasse, Francis è ai box per la rottura del tendine d’Achille e non sarà protagonista della spedizione in terra iberica. La Supercoppa Europea, vinta nella doppia sfida contro il Barcellona, potrebbe restare l’unica gioia di una stagione in cui la bellezza del gioco dei Reds inizia a sbiadire come un vecchio scatto di una Polaroid.
Clough comprese il momento e, anche contro il parere dei senatori dello spogliatoio, compie una scelta inattesa, sovvertendo – solo per quella partita – il suo credo. Una decisione sofferta, machiavellica, ma che gli varrà un’altra Coppa dei Campioni in bacheca. D’altronde il mister lo ripeteva sempre:
“Quando ho una discussione con un mio giocatore, mi siedo con lui per parlarne e, dopo una ventina di minuti, decido che ho ragione io”.
E anche questa volta le cose andarono esattamente così: la formazione era troppo stanca per reggere i soliti ritmi vertiginosi contro un Amburgo atleticamente in formissima.
“Ragazzi, oggi giochiamo all’italiana: catenaccio e contropiede”.
Nessuno lo poteva prevedere, tantomeno gli sfidanti. Che rimasero sorpresi, almeno per la prima mezz’ora: giusto il tempo di mettere a segno l’1-0 – grazie al solito Robertson – e trincerarsi in difesa, soffrendo sotto i colpi dell’Amburgo.
Clough, con viso corrucciato e capelli arruffati, avvolto in una presto indimenticabile tuta rossa griffata Adidas, bofonchiava a bordo campo, esorcizzando gli attacchi tedeschi. Shilton e qualche provvidenziale legno completeranno l’opera. Chi vince senza pericolo, trionfa senza gloria: quella sera il Nottingham toccò il cielo, di nuovo, per un’ultima volta, diventando l’unica squadra ad aver vinto due Coppe dei Campioni pur essendosi laureata campione nazionale una sola volta nella sua storia.