La maledizione sul calcio continua! Abbiamo visto morire uno dietro l’altro Paolo Rossi, Mauro Bellugi, Claudio Garella, Sinisa Mihajlovic, Pelè e ora anche Gianluca Vialli. Siamo ancora a piangere Mihajlovic, scomparso a soli 53 anni per una leucemia mieloide acuta, che ci è piombata addosso la stessa prematura ingiustizia per Vialli, stroncato a 58 anni da un tumore al pancreas col quale lottava dal 2017. Destino infame! Hai voluto unire l’addio prematuro di questi due campioni, Vialli e Mihajlovic, che già si erano avvicinati nella carriera come nella vita. E che rimarranno nella memoria anche per il modo coraggioso col quale hanno vissuto la malattia condividendola col mondo, aiutando così tutti gli altri sofferenti a non sentirsi dannatamente soli.
Sinisa e Gianluca, d’acchito molto diversi, divisivo e spigoloso il primo ed eroe quasi nazionalpopolare il secondo, sono stati due grandi personaggi dalla spiccata personalità, con molto in comune sia dentro che fuori dal rettangolo di gioco. In campo, entrambi univano classe e potenza. Sinisa, partito come ala sinistra, ha saputo evolversi nel giocatore che impostava la manovra, anche se tutti ricordano soprattutto il Mihajlovic micidiale per le formidabili punizioni, autentico marchio di fabbrica sin dall’inizio della carriera anche prima della Stella Rossa. “Sinisa tira la bomba”, con la “o” di bomba sostituita dal disegno di una bomba, era l’onnipresente striscione nella curva della Lazio, nella quale ha militato diventandone una bandiera di forza, coraggio e classe. Prodigiosa la punizione con la quale affondò la Fiorentina nel ’99, ma è solo una delle tantissime, con tutte le maglie che ha indossato.
Vialli è stato invece un centravanti vero, potente, in grado di resistere ai difensori e di esaltarsi in acrobazia. Il gol che segnò alla sua Cremonese con la maglia della Juventus nel ‘95, un forte tiro in rovesciata dal dischetto del rigore, è un manifesto perfetto del Vialli giocatore, ma lo possono essere molti altri come la rovesciata dell’87 con la Sampdoria ad Empoli o il tiro al volo in Juventus-Parma finale di ritorno di Coppa Uefa ’95.
Sinisa e Gianluca, lontani in campo per piede, ruolo e carriera, fuori sono stati molto più vicini, a partire dalla fierezza di chi dice sempre quello che pensa, senza peli sulla lingua e mettendoci la faccia anche quando esprime concetti controversi arrivando all’eccesso. Impossibile ignorare quella famigerata intervista a Mihajlovic in cui il serbo non ebbe paura di restare fedele a un amico impresentabile, quel Zeljko Raz Natovic, “la Tigre Arkan”, criminale di guerra durante il conflitto dei Balcani. “Resta un amico”, fu la frase shock di Mihajlovic, che nella autobiografia ha spiegato meglio la sua delicata posizione: “Non ho mai difeso la vita violenta di Arkan e tantomeno le nefandezze di cui si è macchiato guidando le sue Tigri. Ma era un mio amico, mi voleva bene. Gliene ho voluto anch’io. Quando è morto potevo far finta di niente, l’ho voluto salutare. Mettendoci la faccia, come sempre. Sono a posto con la mia coscienza”. Ancora a proposito del suo necrologio per il criminale di guerra: “Non lo feci per il militare Arkan, il feroce comandante delle Tigri. Lo feci per Zeljko. Possono i due piani rimanere separati? Non lo so, è un tema controverso”.
Cercando invece un eccesso nella carriera o nella vita di Gianluca Vialli, ne emerge uno di matrice completamente diversa ma a suo modo importante. Dobbiamo tornare a una vecchia intervista di Marcello Lippi nella quale l’allenatore toscano ricordava i momenti salienti della finale di Champions League del 1996, vinta dalla Juventus sull’Ajax di Louis Van Gaal. Un passaggio di quell’intervista – sebbene passato sotto silenzio – è scioccante ed è proprio a proposito di Vialli, che non fu inserito nella lista dei rigoristi “perché Gianluca, se la Juve avesse perso la finale per un suo errore dopo che aveva già perso una finale con la Sampdoria, avrebbe smesso di vivere”. Lippi si espresse proprio così: “Avrebbe smesso di vivere”, un’iperbole troppo grossa per passarci sopra, ma eloquente della fame di vittoria e dell’ossessione che era diventata per Gianluca quella coppa fino ad allora maledetta. Un’ossessione arrivata a un livello talmente grande da risultare quasi insostenibile, al punto da tirarsi indietro nel momento più decisivo. Vialli non ebbe nemmeno la forza di assistere lo svolgersi dei rigori, e quando Vladimir Jugovic trasformò il penalty della vittoria stava piangendo sulla spalla di Ciro Ferrara. E’ quella la fotografia che resterà indelebile del campione che si mostra umanissimo, con quelle debolezze e quelle paure che lo riavvicinano alla gente comune, senza peraltro offuscarne la grandezza. Proprio quel coraggio che sembrava aver abbandonato Vialli per i rigori della finale di Champions ne ha invece caratterizzato la battaglia finale col male più subdolo. Ossessionato per un gioco (una partita di pallone) e coraggioso davanti a un tumore, una meravigliosa contraddizione che racchiude l’umanità dell’uomo. Non diversa dal coraggio dimostrato da Mihajlovic, che ha saputo convivere con grande dignità tra la panchina del Bologna e la corsia dell’ospedale Sant’Orsola.
Se Mihajlovic ha sempre incarnato il nomadismo slavo nella sua carriera, partendo dalla Stella Rossa – con cui conquistò giovanissimo la coppa dei Campioni nella finale di Bari del ’91, lo stesso anno in cui Vialli si laureò campione d’Italia con la Sampdoria – e passando per Roma, Sampdoria, Lazio e Inter, il bomber lombardo ha saputo essere italiano pur da professionista nel senso più individualistico del termine. Un inizio all’insegna dell’azzurro, con la vittoria nel mondiale militare e il titolo di capocannoniere dell’Europeo 1986 Under 21, poi con la Nazionale maggiore l’ottimo Europeo 1986 e il deludente Mondiale di Italia’90. In seguito, lo storico scudetto con la Sampdoria, la dolorosa sconfitta ai supplementari nella finale di Champions League contro il Barcellona e il passaggio alla Juventus, il secondo scudetto e finalmente l’agognata coppa dei Campioni, la chiusura di un’autentica ossessione. Prima del capitolo inglese, facendo da pioniere alle esperienze italiane all’estero. Da allenatore – giocatore del Chelsea ha messo fine alla favola italianissima del Vicenza di mister Francesco Guidolin e di Pasquale Luiso in coppa delle Coppe. Poi, appese le scarpette al chiodo, di nuovo azzurro nel ruolo di capo-delegazione della Nazionale guidata dall’ex gemello blucerchiato Roberto Mancini.
Da parte sua, il Mihajlovic allenatore parte dal Bologna, poi ci sono Catania, Fiorentina, Nazionale serba, Sampdoria, Milan,
Torino, una brevissima parentesi allo Sporting Lisbona e di nuovo Bologna. Prima di trasferirsi sotto la Mole, allena il Milan in uno dei periodi più opachi della storia rossonera, riuscendo però a lanciare molti giovani, a partire da un giovanissimo Gigio Donnarumma. Quando nell’estate 2014 Antonio Conte lascia di punto in bianco la Juventus, Mihajlovic rientra nella ristretta cerchia di nomi tra cui scegliere il sostituto. Alla fine Agnelli e Marotta optano per Massimiliano Allegri, ma le doti di grande motivatore e valorizzatore di giovani promesse sono ampiamente riconosciute all’allenatore serbo.
Molto più breve la storia in panchina di Vialli, distribuita solo tra Chelsea e Watford, ma ricca di successi sia inglesi (coppa di Lega, FA Cup e Charity Shield) che internazionali (una coppa delle Coppe e una Supercoppa europea vinta contro il Real Madrid).
Destino maledetto, hai riservato una fine tragica e prematura ai nostri due campioni, ma noi li ricorderemo per quello che hanno fatto nella loro vita con quelle personalità che li hanno resi così simili pur essendo diversi.