“Gli americani vogliono il sangue”. E non si sta parlando di Rollerball, il film di Norman Jewison che nel 1975 ipotizzava un futuro lugubre con uno sport violento e gladiatorio per far sfogare cittadini istupiditi e senza più diritti democratici. Anzi, si parla di uno sport che dovrebbe essere un inno alla libertà, alla fantasia: lo snowboard. Che però all’Olimpiade invernale di Pyeongchang stabilisce un record: 11 atleti su 40 della gara maschile finiscono all’ospedale, con l’austriaco Markus Schalrer che cade nella gara di cross e si rompe la quinta vertebra cervicale. Insomma, il riferimento al sangue non è mica esagerato.
A farlo, tra l’altro, non è un catastrofista, ma una persona che ha a cuore la salute degli atleti, il c.t. italiano dello snowboard, Cesare Pisoni, che nel cross femminile, vinto da Michela Moioli, non fa partire le altre due azzurre Sofia Belinghieri e Francesca Gallina, già infortunate, per non far correre loro eccessivi rischi. E lo stesso percorso su cui la Moioli conquista l’oro è diverso rispetto alla gara maschile, disegnato dagli americani. E’ meno pericoloso perché i tecnici delle altre nazioni hanno protestato con la giuria e hanno ottenuto che si intervenisse per rendere la pista più sicura. Le parole di Pisoni, al di là del caso specifico, pongono comunque in evidenza un problema di fondo: quanto incidono i gusti degli spettatori statunitensi, interpretati in maniera estensiva dalle televisioni Usa, sulla scelta dei nuovi sport olimpici e sulla loro gestione. Visto quello che è successo a Pyeongchang, non è questione da poco. E altre frasi di Pisoni sono ancora più illuminanti: “Gli americani si dovrebbero vergognare. Lo snowboard non è uno sport estremo. In coppa del Mondo non si vedono piste così. Nello snowboard, anche per colpa delle aziende americane e dei loro interessi, viene esaltato il freestyle, il lato estremo di questo sport. Lo snowboard non viene considerato come velocità. E’ un errore che ha portato anche alla crisi del settore. Chi pratica questo sport non è un acrobata o un saltimbanco, ma un vero atleta”.
La questione dei nuovi sport olimpici, sia estivi che invernali, non è nuova ed è piena di polemiche, soprattutto quando discipline tradizionali vengono messe in discussione perché “noiose” secondo i criteri delle Tv che detengono i diritti per la trasmissione delle Olimpiadi, per far posto ad altre improbabili, che però sono spinte dal denaro delle grandi aziende che hanno interesse e che spingono per imporle a un pubblico giovanile disposto a spendere per i prodotti di quegli sport, magari snaturando quegli stessi sport che si intende esaltare. Esattamente l’esempio fatto da Pisoni. A prescindere dagli aspetti sportivi e culturali, che pure dovrebbero essere presi in considerazione se non si vuole che l’intera storia olimpica venga cancellata, c’è un problema concreto, diciamo “più materiale” che questo modo di pensare produce: la “dipendenza” da emozioni sempre più forti.
Si tratta di una vera e propria “droga”. Per restare allo snowboard, lo spettacolo dato dalle evoluzioni nel freestyle diventa dopo un po’ “noioso” e c’è bisogno di salti più difficili, sempre di più. E le gare di velocità devono essere sempre più veloci, e quando non è più possibile aumentare la velocità, perché si è arrivati al limite delle possibilità umane e dei materiali, bisogna creare situazioni emozionanti, che inevitabilmente vengono associate al rischio, al pericolo. Quindi, piste molto più difficili, sulle quali l’incidente diventa quasi una regola. Così, poco alla volta, si arriva agli 11 atleti su 40 che vanno a finire in ospedale a Pyeongchang. Dove lo trovate un altro sport in cui più del 25 per cento dei partecipanti a una gara ha bisogno di essere ricoverato? Nemmeno negli sport di combattimento più crudi. E’ una vera acutizzazione del brivido che viene favorita per combattere una soglia di attenzione che inevitabilmente si abbassa per assuefazione. Eppure, si parla di sport, come lo snowboard, naturalmente spettacolari, che non avrebbero bisogno di ulteriori spinte. Qual è allora il problema? E’ nell’abitudine indotta negli spettatori dalle stesse Tv: ogni giorno, un programma spettacolare in più, per conquistare spettatori a danno di altre Tv, in una reazione a catena che non ha fine.
La drammatizzazione spettacolare è un elemento che non riguarda solo gli sport nuovi, ma colpisce anche quelli tradizionali, purtroppo anche con conseguenze tragiche. Non si possono ignorare le polemiche e gli incidenti per piste di sci, soprattutto di discesa libera, considerate troppo pericolose e disegnate in questo modo per precisa volontà di creare rischio e spettacolo. Rischio che può dipendere anche dagli strumenti televisivi “estremi” usati per le riprese, con l’esempio clamoroso di quanto accaduto il 22 dicembre 2015 nella gara di coppa del Mondo a Madonna di Campiglio: l’austriaco Marcel Hirscher, in azione in slalom, che per pochissimo non viene colpito da un drone della Tv, del peso di 10 chili, caduto da 20 metri sulla pista a causa di una avaria. Ma il pericolo più grande deriva comunque dalle piste e dalle misure di sicurezza più o meno efficaci. E non sempre questo pericolo viene riconosciuto come tale, anche quando accadono tragedie, come quella dell’austriaca Ulrike Mayer il 29 gennaio 1994. Nella discesa libera sulla pista Kandahar di Garmisch-Partenkirchen, la Mayer cade nel finale e va a sbattere contro un cumulo di neve e poi contro la protezione della cellula fotoelettrica del cronometro. Muore sul colpo, a 26 anni, per la rottura della vertebre cervicali. I suoi familiari citano in giudizio gli organizzatori perché ritengono che la fotocellula non avrebbe dovuto costituire un ostacolo pericoloso per le atlete, ma i giudici decidono che la morte è causata dall’impatto con la neve e non da quello, certamente più violento, con le protezioni della fotocellula. Gli incidenti dovuti a piste rese pericolose sono tanti, ma anche se non ci sono state altre morti rimane lunga la lista degli atleti vittime di gravi infortuni, per alcuni dei quali la carriera si è interrotta.
E questa specie di “immunità” si ritrova all’Olimpiade invernale di Vancouver 2010, quando nelle prove dello slittino, poco prima della cerimonia d’apertura, muore il georgiano Nodar Kumaritashvili, 21 anni, che nell’ultima curva del percorso va a sbattere a 140 km all’ora contro un palo. La presenza di quello e di altri pali nella stessa zona, delicatissima perché all’uscita dell’ultima curva, dove si arriva con la velocità più alta, viene criticata dagli atleti e dai tecnici. Nello stesso punto, si verifica un altro incidente, con la romena Violeta Stramaturaru che perde conoscenza ma per fortuna si riprende. Ma la beffa tragica arriva alla conclusione delle indagini della Federazione internazionale dello slittino, che assolve la pista e dà la colpa dell’incidente mortale esclusivamente al povero Kumaritashvili, che ha perso il controllo dello slittino. La Federazione dice che l’incidente non è dovuto a “difetti del tracciato”, ma è un modo per eludere il punto principale: non è il tracciato sotto accusa, ma il palo sul quale è andato a sbattere il giovane georgiano. Nessuna parola sul fatto che in quel punto non ci dovessero essere pali.
Il mondo dello sport, e si intende quello dei dirigenti, non degli atleti, quelli cioè che rischiano la pelle, si auto-assolve sempre e comunque. Non c’è motivo di credere, perciò, che venga posto un freno alle richieste di gare “più emozionanti” non perché ci sono sfide tecniche e umane di alto valore, ma perché c’è la possibilità di momenti “eccitanti” nel modo sbagliato. Pyeongchang ne è stata solo l’ulteriore conferma e la frase shock di Pisoni diventa ancor più emblematica: “Vogliono il sangue”. Sono passati 2000 anni da quando le folle impazzivano per i gladiatori che si uccidevano nelle arene della Roma imperiale e siamo ancora fermi lì.
Gennaro Bozza