Mondiali aquatici bollenti per tanti motivi, dalle emozioni per le gare alle polemiche sul doping, dai dubbi sulla scelta di Gwangju alla conferma che sarebbe stato meglio farli da qualche altra parte, dagli interrogativi su assenze come quella della Corea del Nord alle certezze sulla grande fuga dalle candidature per questa manifestazione, col contorno di curiosità, notizie che non si trovano sui mezzi di informazione ufficiali, personaggi di varia natura e via così. A mente fredda, a fine Mondiali, potrebbe essere interessante rivedere alcuni aspetti delle gare e di quello che è avvenuto fuori, magari ci si diverte, magari si resta con un po’ di amaro in bocca, comunque qualcosa su cui riflettere si trova sempre.
COREA DEL NORD BUM BUM BUM
I dirigenti della Fina, come avevo già fatto notare nel primo articolo sui Mondiali, si erano mostrati sorpresi, in conferenza stampa ufficiale, per la rinuncia della Corea del Nord a partecipare. Stavano ancora aspettando una risposta. Beati loro. Avevo già spiegato come i rapporti fra il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e gli Stati Uniti si fossero deteriorati a dispetto delle dichiarazioni pubbliche e della farsa del presidente americano Trump che attraversa il confine fra le due Coree. Di qui la nuova posizione nordcoreana: non si partecipa a manifestazioni in cui ci siano gli Usa.
Nessun mezzo di informazione ne aveva parlato, solo questo sito. Avevano ragione gli altri? Aveva ragione Sportsenators! Proprio negli ultimi giorni dei Mondiali, ecco due notizie: lancio di due missili nordcoreani a corto raggio nel Mar del Giappone, dopo cinque giorni altri missili verso la Corea del Sud. E i nordcoreani confermano orgogliosamente i lanci, spiegando al mondo intero che sono stati una “dimostrazione di forza” e un “solenne avvertimento” a Sud Corea e Stati Uniti, aggiungendo, tramite l’agenzia di stato della Nord Corea, che questa è stata una risposta alle armi sviluppate dai sudcoreani e alle manovre militari congiunte Sud Corea-Usa. E i dirigenti della Fina stavano ancora lì ad aspettare la risposta dei nordcoreani sulla partecipazione ai Mondiali!
QUANTO SEI BELLO TU, QUANTO SONO BELLO IO
Sulla scarsa capacità organizzativa di Gwangju avevo già dato precise indicazioni, con esempi concreti. Purtroppo, la situazione non è migliorata col passare dei giorni, il tutto acuito anche da fattori non prevedibili, come le condizioni meteorologiche da autunno-inverno, con sole tre mezze giornate di sole (non è una esagerazione, è esattamente così) dal 10 al 28 luglio, poi solo pioggia e temporali, andava bene quando il cielo era soltanto coperto di nuvole nere. Ma per tutto il resto che dipendeva dal fattore umano questi Mondiali sono stati un disastro. Un solo esempio per chiudere: vi pare mai possibile che in qualche “information desk” o “transportation desk” non ci sia neanche una persona che parli inglese? E che si sia fortunati quando se ne trova uno con una sola persona che parla inglese? O che in alcuni di questi, nelle ore dei pasti, compaia un cartello con la scritta “il personale è a cena dalle 18.40 alle 19.30, tornate dopo”? Ciò nonostante, dopo appena tre giornate di gara, la Fina ha trovato il modo di fare una cerimonia di premiazione alla Città di Gwangju per l’ottima organizzazione dei Mondiali! Magari, chissà, aspettare gli ultimi giorni, forse il giudizio sarebbe stato più motivato. Ma il punto è che, comunque, “questi Mondiali sono i migliori di sempre”, ogni due anni il ritornello è lo stesso. E se qualcuno si permette di protestare ecco che vengono fuori le spiegazioni sui Mondiali “sostenibili”, che è un modo per dire che soldi non ce ne sono, si fa tutto al risparmio e quindi anche trovare qualcuno che parli inglese è difficile perché bisogna pagarlo, quindi si torna ai “desk” senza traduzione. Che poi ci sia scarsità di candidature è vero, tant’è che, dopo Fukuoka 2021 e Doha 2023 (in Qatar i soldi ci sono eccome), i Mondiali vengono assegnati a Kazan nel 2025 e Budapest nel 2027. Il bis del 2015 e del 2017, nello stesso ordine. Non è un bel segnale. Per non lasciare Gwangju solo con brutti ricordi c’è bisogno di pensare ai tantissimi volontari che si sono prodigati per aiutare tutti i partecipanti, gli spettatori, i giornalisti, per rimediare agli errori e agli atteggiamenti presuntuosi dei “capi ufficiali”. Per avere un’idea più chiara: sarebbe bastato scambiare di posto i “grandi capi” dell’organizzazione con gli “umili volontari” di Gwangju per avere una edizione memorabile dei Mondiali.
DOPING E COERENZA ANGLOSSASSONE
Gli ultimi giorni dei Mondiali sono stati paradossali per quanto riguarda le vicende del doping. Come si ricorderà, la protesta dell’australiano Mack Horton nei confronti del cinese Sun Yang, col suo rifiuto di salire sul podio dei 400 metri stile libero accanto a lui, aveva provocato reazioni contrastanti, fra approvazioni e polemiche. In generale, però, la “coalizione” di nazioni come Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna, seguite da tante altre che normalmente “si accodano” alle più forti, aveva imposto una visione unilaterale della situazione: occidentali tutti buoni (anche l’Australia è da considerarsi tale, tanto da non avere nemmeno una sua bandiera indipendente, nella sua continua addirittura a mantenere l’immagine di quella britannica!), cinesi dopati e cattivi. Poi, negli ultimi giorni, la sorpresona: l’australiana Shayna Jack, che aveva abbandonato la squadra nazionale ed era tornata a casa “per motivi personali” proprio alla vigilia dei Mondiali, è stata trovata positiva al doping in un controllo del 26 giugno. La sostanza proibita è il Ligandrol, usata in generale nel mondo di bodybuilder. La squalifica prevista per questo tipo di doping è di 4 anni, salvo attenuanti da verificare. La Federazione australiana ha tenuto nascosto il motivo dell’abbandono della Jack con la solita motivazione, “privacy”, quella usata da sempre dalle nazioni “occidentali” per nascondere le positività dei loro atleti. Il punto è che quelle stesse nazioni hanno accusato la Cina di aver tenuta nascosta, nel 2014, la squalifica di tre mesi di Sun Yang. Fu una squalifica di durata minima perché la sostanza trovata nel controllo era diventata proibita solo 4 mesi prima, era autorizzata fino ad allora e contenuta in una medicina che Sun Yang assumeva per un disturbo cardiaco. Perciò, comunque colpevole perché la legge non ammette ignoranza, ma non nei normali canoni di un doping “pesante” come qualità della sostanza e volontà dell’assunzione della stessa, per cui furono ritenuti congrui 3 mesi di squalifica. Quindi, l’Australia (come le altre nazioni occidentali) può nascondere una positività al doping, la Cina no.
Ma c’è di peggio e riguarda l’atteggiamento dei paesi anglosassoni quando di mezzo c’è il loro doping. Tutti muti, a cominciare da Mack Horton (che si ricorderà di parlare solo dopo molti giorni per dire che lui è contro il doping di qualunque atleta, senza citarne alcuno) che nelle batterie della staffetta 4×200 stranamente non si accorge che un suo compagno di squadra, Thomas Fraser-Holmes, nel 2017 è stato squalificato per un anno per aver saltato tre controlli antidoping. Ed è proprio Fraser-Holmes, come terzo frazionista, a passargli (idealmente, visto che si è in acqua) il testimone. In finale, però, Fraser-Holmes non viene schierato, forse per evitare domande scomode? Domande che però arrivano dopo la notizia della Jack positiva al doping. Da ricordare, della serie “le frasi storiche”, il commento della stessa Jack: “Io e la mia Federazione stiamo cercando di capire come la sostanza proibita sia venuta a contatto col mio corpo”. Senza vergogna. E nessuno si mette a ridere dopo aver sentito una oscenità di questo genere?
Fatto sta che i giornalisti cinesi, in zona mista, cominciano a fare domande agli australiani e agli statunitensi. Le scene, alle quali ho assistito di persona, sono comiche. Due atleti della staffetta mista australiana letteralmente scappano davanti a una giornalista cinese che chiede loro un commento alla positività della Jack. Insieme agli atleti c’è la responsabile dell’ufficio stampa della squadra australiana. La giornalista cinese chiede a lei: “Allora scrivo che non avete voluto rispondere alle mie domande sul doping della Jack?”. E lei risponde: “Se lo fa, se ne assume la responsabilità”. Un capolavoro: assumersi la responsabilità di cosa? Di aver scritto esattamente quello che è successo? Basterebbe questo per comprendere da quale pulpito arrivino le prediche di chi si professa paladino dello sport pulito. Ma non è finita, perché anche la statunitense Lilly King, oro nei 50 e 100 rana, si ritrova spiazzata. I giornalisti cinesi le chiedono cosa pensa della Jack e lei dice che non si possono fare commenti prima che si sappia con certezza cosa è successo. I giornalisti cinesi le ribattono che quando è venuta fuori la notizia della provetta rotta a martellate da una persona dello staff di Sun Yang lei stessa aveva sostenuto che non c’era bisogno di sapere altro per condannare Sun Yang. In quel caso non si doveva aspettare per “sapere esattamente cosa è successo”? E la King, invece di rispondere, scappa via. Anche lei, come gli australiani, mostrando un coraggio da leoni! Una indimenticabile lezione di coerenza.
DOPING E COERENZA DEI MEDIA
E per quanto riguarda la coerenza c’è chi sta messo non molto meglio. Titoloni, pagine intere, commenti, articoli a ripetizione sui siti internet tenuti in primo piano per giorni e giorni, una “tempesta di informazioni” quando Sun Yang è stato al centro delle polemiche. Nemmeno una parola su Fraser-Holmes e infine, quando è venuta fuori la positività della Jack, poche righe sui giornali, una piccola notizia sui siti internet, subito sparita dalla frontpage. Esaltazione della “sommossa popolare” nella mensa degli atleti, la cronaca “minuto per minuto” con gli applausi a scena aperta all’ingresso di Horton, il silenzio assoluto dopo il doping della Jack. Addirittura, in tribuna stampa, giornalisti che applaudono Horton e poi anche il britannico Scott, quando rifiutano di stare vicino a Sun Yang sul podio, un giornalista irlandese accanto a me che si lancia in un “buuuu” per Sun Yang e rimane seduto quando viene suonato l’inno cinese, per poi alzarsi nelle successive premiazioni durante tutti gli altri inni. Della serie “l’obbiettività e l’equilibrio dell’informazione”. Chissà se questo giornalista irlandese ha memoria di una sua certa connazionale Michelle Smith, 3 ori ai Giochi di Atlanta 1996, squalificata 4 anni per doping, a riprova di quanto siano anche loro molto “esperti” nel settore. Ma tornando alle mancate risposte e alle fughe di australiani e statunitensi davanti ai giornalisti cinesi, la batosta per queste persone “mute” arriva da una fonte insospettabile, l’ex presidente dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada), il canadese Dick Pound, che l’ha diretta per otto anni. In una intervista al quotidiano australiano “The Sydney Morning Herald”, Pound, che è stato anche vicepresidente del Comitato olimpico internazionale (Cio), mette sotto accusa gli australiani per l’opposto atteggiamento sul doping quando si tratta dei cinesi o di loro stessi. Ecco le sue frasi più nette e inequivocabili: “Se tu pretendi di essere moralmente migliore di chiunque altro, devi avere le mani pulite quando cominci una discussione”; “C’è una netta differenza fra la reazione dell’Australia alla situazione di Sun Yang e a quella di una loro nuotatrice”; “L’Australia si è sempre opposta fermamente al doping, ma se la salsa è buona per l’anatra femmina deve essere buona anche per l’anatra maschio”; “L’Australia dovrebbe mostrare chiaramente di essere scontenta se un proprio nuotatore è trovato positivo al doping nella stessa maniera in cui si mostra scontenta se quel nuotatore fosse cinese”. Avete mai letto queste frasi su un mezzo di informazione italiano? Eppure c’è un personaggio importante dello sport che accusa apertamente l’Australia di comportarsi in modo diverso a seconda che il doping riguardi i cinesi o gli australiani. Il fragore dei mezzi di informazione, quando nel doping cascano gli atleti occidentali, si perde del tutto. Altra bella lezione di coerenza.
QUANDO QUADARELLA ERA “SCARSA”
E passiamo ad argomenti più legati ai gesti e alle gesta dello sport. A premiare Simona Quadarella per la medaglia d’oro nei 1500 metri c’è il presidente del Cio, Thomas Bach. Un grande onore per l’azzurra, al primo oro mondiale assoluto della carriera, ma anche una celebrazione particolare. Già, perché Quadarella e Bach avevano già avuto un incontro ravvicinato da medaglia d’oro qualche anno prima. E’ il 2014, seconda edizione delle Olimpiadi giovanili, a Nanchino, in Cina. Simona ha 15 anni e 8 mesi quando, il 19 agosto, gareggia negli 800 metri. Non ci sono batterie e finale, le nuotatrici sono divise in serie in base ai tempi di entrata. Si nuotano gli 800 metri una sola volta e chi ha il tempo migliore vince l’oro. Tre serie si nuotano di mattina, quelle delle nuotatrici con i tempi peggiori, la quarta di sera, insieme alle finali delle altre gare, con le otto con i tempi migliori, quelle che si presume lotteranno per il podio. Quindi, Quadarella, che ha un tempo di 8’53”70, non è brava abbastanza per gareggiare nella serie delle “favorite”, lei nuota nelle serie delle nuotatrici “scarse”, di mattina. Poi, la sera, va in tribuna a vedere gareggiare le più brave, aspettando di sapere quale sarà il suo piazzamento. Intanto, dopo le serie della mattina lei ha il tempo migliore, 8’35”39, con un progresso di 18”31 in una botta sola. Potrebbe essere già soddisfatta del risultato. Succede, però, che nessuna delle “più brave” riesca a fare meglio di lei, la spagnola Jimena Blanco si ferma a 8’36”95. Quadarella vince l’oro olimpico giovanile. In jeans e maglietta, come in una canzone di Nino D’Angelo, e con l’aria spaesata scende dalla tribuna e si aggira intorno alla piscina, non sa nemmeno dove andare. Ci sono solo due giornalisti italiani a congratularsi con lei. “Hai vinto, brava”. E Simona: “Eh, sì, ho vinto”. Un sorriso timido. E poi, Bach che arriva, le fa i complimenti e si fa un selfie con lei. Poi, cambio d’abito, la tuta dell’Italia e la premiazione, il primo passo nel successo. Dopo cinque anni e tante vittorie importanti agli Europei, ecco che arriva un altro oro “universale” e la definitiva consacrazione, sempre con Bach insieme a lei.
LEDECKY E IL VIRUS BALLERINO
A battere Simona Quadarella c’è solo la statunitense Katie Ledecky negli 800, dopo aver rinunciato ai 1500 e ai 200 a causa di un misterioso virus. Misterioso perché ci sono tante cose che non quadrano nel comportamento della Ledecky e che fanno scoprire punti deboli che già si erano intravisti nei Mondiali 2017 di Budapest. Andiamo con ordine. Nella prima giornata di gare, subito la sorpresa: l’australiana Ariarne Titmus batte la Ledecky nei 400 con una grande accelerazione negli ultimi 50 metri. Certo, non sembra la Ledecky del record mondiale da 3’56”46 stabilito nella finale olimpica di Rio 2016, ma non è nemmeno un tempo da buttare quello della statunitense. La Titmus vince in 3’58”76, davanti alla Ledecky in 3’59”97. A Budapest, la statunitense aveva vinto in 3’58”34, che le avrebbe permesso di prendere l’oro a Gwangju, ma comunque lontana due secondi dal tempo di Rio, senza contare che nel testa a testa finale la Titmus avrebbe anche potuto fare qualcosa di più se la Ledecky fosse stata in grado di ripetere Budapest. Ed è proprio questa la differenza rispetto al passato: Ledecky di solito parte forte e stacca le avversarie, nel finale va da sola al traguardo. Guardando i tempi della finale di Budapest si nota che i primi 300 metri sono condotti dalla Ledecky alla stessa velocità: 57”71 ai 100 a Budapest contro i 57”66 a Gwangju, 1’57”74 contro 1’57”84 ai 200, 2’58”40 contro 2’57”90 ai 300, quindi addirittura più veloce nel 2019 fino ai 300 metri. Negli ultimi 100, però, la differenza: Ledecky li nuota in 59”94 a Budapest, in 1’02”07 a Gwangju, 2”13 più lenta. Il che potrebbe confermare il virus che la indebolisce nella parte finale. Ma sempre da Budapest arrivano indicazioni interessanti su come la Ledecky abbia qualche problema nei duelli ravvicinati contro chi ha uno sprint notevole. Nel 2017 Ledecky nuota nella stessa serata la finale dei 1500, che vince in 15’31”82, e mezzora dopo la semifinale dei 200, vinta in 1’54”69. Il giorno dopo, nuota solo la finale dei 200 e fa 1’55”18, battuta in rimonta nell’ultima vasca da Federica Pellegrini in 1’54”73. Quindi, con la stanchezza della finale dei 1500 in corpo, Ledecky sui 200 fa un tempo migliore di mezzo secondo di quando li nuota il giorno dopo fresca e riposata, addirittura con il tempo “stanco” della semifinale che è migliore di quello col quale la Pellegrini vince l’oro. E allora, cosa c’è che non va? La sensazione più forte è la difficoltà della Ledecky al cambio di ritmo, per cui va in affanno quando si ritrova l’avversaria “spalla a spalla”. Accade con la Pellegrini sui 200 a Budapest, con la Titmus sui 400 a Gwangju. Tutte le sue vittorie le ottiene con una gara “in fuga”, a eccezione degli 800 proprio a Gwangju, ma su questi torniamo fra pochissimo per vedere cosa è successo davvero.
Insomma, non ci sono segni di virus malefico a vedere cosa succede nei 400 a Gwangju. E la mattina dopo, nelle batterie dei 1500, la Ledecky ottiene il miglior tempo in 15’48”90. Un tempo “da virus”? Guardiamo le batterie dei 1500 a Budapest: miglior tempo per Ledecky in 15’47”54. Praticamente lo stesso rendimento. Eppure, proprio dopo le batterie dei 1500 la Ledecky annuncia di rinunciare sia alla finale dei 1500 che alla gara dei 200. L’unico virus che sembra averla colpita è quello della insicurezza, del timore della sconfitta. E quanto torna a gareggiare, pur vincendo gli 800, la sensazione che qualcosa le si sia rotto dentro permane, anche se vince “allo sprint” contro la Quadarella. Ma è uno sprint inusuale. Vediamo perché. Ledecky tenta la fuga, ma Quadarella resiste e riesce a fare il sorpasso, sembra addirittura in grado di staccare la statunitense, che però recupera e nella penultima vasca torna avanti, sia pure di pochissimo, e riesce a toccare per prima la piastra all’ultima virata. Quindi, Ledecky conferma la difficoltà nello staccare l’avversaria quando questa tiene il passo, tant’è che Quadarella la supera due volte: subito dopo metà gara, quando cerca anche di andarsene via, e poi nella penultima vasca, quando si potrebbe pensare che Ledecky, dopo averla risuperata, non avrebbe più problemi a staccarla. Ma proprio all’ultima virata la situazione cambia, e non perché Ledecky cambi ritmo, ma per una ragione esclusivamente fisico-atletica. Quadarella tocca per prima, in 7’44”21 contro 7’44”39 della statunitense. All’uscita dalla subacquea, però, la Ledecky è avanti di un metro, frutto della superiore spinta delle gambe con il tocco sulla piastra, lì dove viene fuori la differenza fisica fra lei e Quadarella, con una struttura muscolare nettamente superiore da parte della statunitense. E nell’ultima vasca, anche se può apparire che la Ledecky cambi passo, che aumenti il ritmo della nuotata, si vede che il numero di bracciate e di gambate è lo stesso per entrambe le atlete, ma la spinta è maggiore per la Ledecky, che incrementa il vantaggio, nuotando gli ultimi 50 metri in 29”19 contro i 30”78 di Quadarella. Perché allora contro la Pellegrini sui 200 a Budapest e contro la Titmus sui 400 a Gwangju la Ledecky non è riuscita a fare altrettanto nell’ultima vasca? Per un motivo semplice: perché sia Pellegrini che Titmus hanno aumentato il ritmo in maniera tale che la Ledecky, pur con una superiore forza fisica, non ha potuto recuperare con una singola bracciata lo spazio che le avversarie coprivano con una bracciata e mezzo o addirittura con due bracciate. La Quadarella, generosissima, non è riuscita a incrementare il ritmo nell’ultima vasca non perché tecnicamente non ne sia capace, sia pure in maniera inferiore a Pellegrini e Titmus, ma perché non aveva più la forza per riuscirci. Guardando gli ultimi 100 metri della Titmus si ha una ulteriore conferma di tutto questo. L’australiana, che arriva terza, ha nuotato l’ultima vasca degli 800 in 28”89, tre decimi più veloce della Ledecky, e gli ultimi 100 in 59”11, contro 1’00”11 della Ledecky e 1’01”64 della Quadarella. Una distribuzione delle forze appena migliore e la Titmus (che non ha ancora 19 anni e paga l’inesperienza) avrebbe combinato alla Ledecky lo stesso scherzetto dei 400. La Quadarella avrà tempo e modo per migliorare, facendo attenzione più alla Titmus che alla Ledecky sugli 800, ma il quadro generale porta a valutare in maniera diversa la potenzialità di quella che è stata la dominatrice dai 200 ai 1500 negli ultimi anni, per la Ledecky a Tokyo 2020 sarà più difficile nascondersi dietro un misterioso virus.
I RIPENSAMENTI DI PELLEGRINI
Le celebrazioni per la vittoria di Federica Pellegrini nei 200 hanno fatto passare in secondo piano un aspetto non secondario dell’impostazione che lei ha voluto dare alla sua carriera negli ultimi due anni, vale a dire la scelta di abbandonare i 200 e puntare tutto sui 100. Che poi, con l’avvicinarsi dei Mondiali, abbia deciso di riprendere i 200, con il lieto finale della medaglia d’oro, non può cambiare l’analisi tecnica delle sue due ultime stagioni. Ed è un’analisi completamente fallimentare quella che si riferisce alla scelta ufficiale della Pellegrini, i 100 metri. Nel 2018 ha il 25mo tempo mondiale in 53”99. Le prime nove nuotatrici sono sotto i 53”. Escludendo quelle oltre la seconda per ogni nazione, visto che ai Mondiali possono gareggiare solo in due, davanti alla Pellegrini ce ne sono 17. In pratica, con quel rendimento, ai Mondiali la Pellegrini non si qualifica nemmeno per la semifinale. Nel 2019, ha il 21mo tempo in 53”66 e 16 nuotatrici davanti a lei, con lo stesso criterio dell’esclusione di quelle oltre la seconda per ogni nazione. Quindi, anche con questi riferimenti, la Pellegrini ai Mondiali non va oltre le batterie. Che poi si sia verificato esattamente questo a Gwangju, con Federica nemmeno qualificata per la semifinale, è un altro discorso perché, nel caso specifico, dopo l’oro nei 200, i festeggiamenti e una notte insonne, era chiaro quanto fosse impensabile un rendimento massimo sui 100. Resta il fatto che, nella situazione di base, cioè con i 100 “prima gara” della Pellegrini secondo i suoi stessi programmi ufficiali, non c’era alcuna speranza di un risultato sia pur minimamente positivo. Ad andare tutto al meglio, si poteva pensare alla semifinale, impossibile di più.
E allora si pone la questione: quali erano i veri programmi della Pellegrini e del suo allenatore Matteo Giunta? Federica stessa ha detto di aver deciso solo poco prima dei Mondiali di nuotare i 200, e anche con tanti interrogativi che lei si poneva. Lo ha deciso perché si è resa conto di non avere alcuna possibilità sui 100? In ogni caso, il lavoro svolto in due stagioni sui 100 metri aveva dato risultati negativi. Perciò, che senso ha celebrare questo lavoro perché ha portato un risultato, l’oro nei 200, che non era l’obbiettivo di questo lavoro? Bisogna forse pensare che le dichiarazioni sulla volontà di nuotare solo i 100 fossero un bluff? Non avrebbe comunque senso. In ogni caso, la realtà evidente è che puntare sui 100 era un clamoroso errore, purtroppo non messo in evidenza sin dall’inizio da alcun commentatore. Eppure, i segnali di un obbiettivo impossibile c’erano tutti. Si può solo pensare che i giornalisti hanno avuto paura di fare brutta figura nel dire che puntare sui 100 era uno sbaglio.
E non è nemmeno la prima volta che accade qualcosa del genere, perché si era verificato lo stesso quando Katie Ledecky aveva annunciato di voler puntare anche sui 100 per realizzare un clamoroso filotto su tutte le distanze dello stile libero, dai 100 ai 1500. I mezzi di informazione avevano semplicemente registrato la notizia, con titoli a effetto sul tentativo della Ledecky. Ma basta guardare il fisico della statunitense per capire che sui 100 metri le sue possibilità di vittoria sono al di sotto dello zero. E infatti nelle gare nazionali in Usa si ritrovò ben lontana dalla zona podio, fino a rinunciare a quello che si era rivelato uno sproposito.
Rimane quindi solo l’australiana Shane Gould ad aver realizzato l’impresa di essere la migliore in tutte le distanze dello stile libero, e non solo. Nel 1971 detenne contemporaneamente tutti i record mondiali di 100, 200, 400, 800 e 1500, ai quali aggiunse, nell’agosto del 1972, anche quello dei 200 misti, dimostrando di essere, quantomeno dal punto di vista tecnico, la più grande nuotatrice di tutti i tempi. Che poi abbia vinto pochi titoli olimpici e nessun mondiale è dovuto solo al fatto che si ritirò a soli 17 anni, dopo appena tre stagioni di successi e la partecipazione a una sola Olimpiade, oltre al fatto che la prima edizione dei Mondiali di nuoto si disputò nel 1973, quando lei si era già ritirata. Comunque, ai Giochi di Monaco 1972, quando aveva solo 15 anni, vinse 3 ori (con tre record mondiali stabiliti), un argento e un bronzo. I tempi sono cambiati, i Mondiali si disputano ogni due anni, le carriere si sono allungate, ma la dimostrazione di superiorità tecnica di Shane Gould resta devastante, nessun’altra nuotatrice nella storia (e nessun nuotatore) ha saputo fare altrettanto. Perciò, se per stabilire chi sia la più grande di sempre si decide di fare la conta delle medaglie, non c’è bisogno di capire di nuoto, si fa un lavoro da ufficio del catasto e si stila la classifica. E Shane Gould scompare. Ma non è una cosa seria.
I RECORD BLUFF DI DRESSEL
Dopo i 7 ori ai Mondiali di Budapest, lo statunitense Caeleb Dressel puntava al bis a Gwangju. E ogni volta che si parla di così tanti ori si pensa sempre ai record stabiliti da Mark Spitz all’Olimpiade 1972 di Monaco, 7 ori, e da Michael Phelps a quella di Pechino 2008, con 8 ori. Il paragone, però, non regge assolutamente e quando si presentano imprese di questo genere bisognerebbe specificare, a vantaggio dei lettori, quale sia il vero significato. Nel caso di Dressel, nuotatore molto potente e bravissimo sui 50 e 100, sia stile libero che farfalla, il record di 7 ori a Budapest, seguito dai 6 ori a Gwangju, non è nemmeno comparabile con quelli di Spitz e Phelps. Il punto principale è che Dressel non è competitivo su distanze più lunghe dei 100, a differenza di Spitz e Phelps che vincevano anche sui 200 e Phelps che si spingeva sui 400 misti. Dressel a Budapest vince 50 e 100 stile libero, 100 farfalla, a Gwangju aggiunge l’oro nei 50 farfalla. Tutte le altre vittorie sono in staffetta, ma con un’ulteriore precisazione: due ori a Budapest e uno a Gwangju nelle staffette “miste”, quelle con due uomini e due donne, una deplorevole invenzione da circo (senza offesa alla nobiltà del circo), non da Mondiali di qualsiasi sport (purtroppo l’atletica si è accodata in questa corsa nella perversione tecnica). Quindi, a Budapest due ori che ai tempi di Spitz e Phelps non esistevano, e comunque vittorie in staffetta che superano, nel caso dei Mondiali 2017, quelli individuali. E davvero si può parlare di record?
I RECORD VERI DI MARK SPITZ
Si torna perciò ai record reali, non pompati dalle gare miste, e alla discussione se davvero Phelps abbia battuto quello di Spitz, visto che sui 100 farfalla all’Olimpiade 2008 di Pechino a toccare per primo la piastra all’arrivo fu il serbo Milorad Cavic, non Phelps. Il problema è che la piastra è stata costruita per registrare un tocco che abbia una certa pesantezza, il tocco leggero non fa scattare il meccanismo di attivazione dei sensori. Così, Phelps arriva un attimo dopo ma la sua pressione sulla piastra è più potente e risulta primo, Cavic ci arriva “leggero” e solo quando “preme” più forte, sullo slancio di tutto il corpo, blocca il cronometro, un centesimo di secondo dopo Phelps. Il punto è: non basta arrivare primo, bisogna anche farlo con una determinata forza. Ma questo non è esattamente un principio sportivo. Fatto sta che in questa gara Phelps non stabilisce il record del mondo, come nelle altre 7 vittorie a Pechino. Spitz a Monaco stabilisce 7 record del mondo, e lo fa in tutte le gare che vince. Ma c’è un altro aspetto importante che depone a favore di Spitz e contro Phelps. Nelle staffette, Spitz gareggia sempre in ultima frazione (a eccezione dei misti, in cui nuota la frazione a farfalla, la terza), prendendosi la responsabilità di chiudere la gara anche eventualmente rimontando nel caso i compagni non siano stati più veloci degli avversari. E va più lento di un compagno solo nella 4×100 stile libero, 50”90 contro i 50”78 di Jerry Heidenreich, comunque più veloce di tutti gli altri finalisti, poi è sempre l’uomo determinante. Phelps in staffetta, oltre al fatto di preferire la prima frazione, non è decisivo nella stessa maniera di Spitz. L’esempio più clamoroso lo si ha nella 4×100 stile libero, quando alla partenza dell’ultima frazione la Francia è sorprendentemente in vantaggio sugli Stati Uniti. In prima frazione Phelps ha nuotato in 47”51, soli 4 decimi più veloce del francese Amaury Leveaux (47”91), non certo il rendimento di un leader che guida la squadra alla vittoria. Così, all’inizio della quarta frazione la Francia è in testa in 2’21”59, gli Usa seguono in 2’22”18. I francesi hanno in vasca il possente (e sospettato di doping) Alain Bernard, 25 anni, che parte quindi con un vantaggio di 59 centesimi di secondo su Jason Lezak, 33 anni, che per età (otto anni più grande di Bernard) e risultati non appare in grado di rimontare sul francese. Eppure, Lezak “inventa” una frazione da 46”06, che è la più veloce frazione mai nuotata nella storia sui 100 stile libero, quindi nel nuoto in assoluto, sollevando anche lui forti sospetti di doping. E’ vero che siamo in piena era dei cosiddetti “costumoni”, quei particolari costumi che favorivano il galleggiamento e garantivano una spinta in più, tanto che fra Olimpiade 2008 e Mondiali 2009 furono stabilite valanghe di record impossibili, molti dei quali resistono tuttora, ma anche tutti gli altri atleti li indossavano, compreso Phelps, senza arrivare a quel limite assurdo raggiunto da Lezak. In un finale incredibile Lezak riesce a superare Bernard e a vincere con un vantaggio di appena 8 centesimi: 3’08”24 contro 3’08”32. A parte i sospetti di doping per entrambi gli ultimi frazionisti, il punto è: la parte di Phelps in questo oro è di secondo piano, tant’è che gli Usa hanno bisogno di una prestazione da fantascienza di Lezak per vincere. Phelps si prende gli 8 ori e il record assoluto, ma il significato tecnico di questo record, fra 100 farfalla in cui ha toccato per secondo e staffetta in cui non ha fatto la differenza, non potrà mai essere equiparato a quello di Mark Spitz, dominatore nelle prove individuali e decisivo nelle staffette. Per consacrare il campione più grande non bastano i numeri da soli.
I RECORD DEI COSTUMONI
Considerando che si è parlato dei costumoni e dei record stabiliti grazie a essi nel biennio 2008-2009, va segnalato che a Gwangju ne sono caduti tre: 100 farfalla con Dressel che nuota in 49”50, 200 farfalla con Milak che scende a 1’50”73, entrambi strappati a Phelps, la 4×200 stile libero femminile con l’Australia che lo abbassa a 7’41”50, togliendolo alla Cina. Ma ne restano altri 12 risalenti a quel periodo che ha falsato e continua a falsare la realtà tecnica del nuoto, 10 fra gli uomini e 2 fra le donne. Restano, per gli uomini, quelli di 50, 100, 200, 400 e 800 stile libero, 200 dorso, 400 misti, e le staffette 4×100 e 4×200 stile libero, 4×100 misti. Per le donne, i 200 stile libero della Pellegrini (1’52”98 stabilito ai Mondiali 2009 a Roma) e i 200 farfalla. Se a distanza di 10-11 anni quei record sono ancora lì, assume ancor maggiore rilevanza la situazione particolare dalla quale sono scaturiti, con grandi aziende del settore che inventano il costume magico, la Fina che approva indiscriminatamente, un’altra azienda, più piccola, che costruisce un costume migliore e comincia a dominare il mercato con i nuotatori che la preferiscono alle altre, la marcia indietro della Fina che abolisce i costumoni. Al di là delle polemiche, resta il danno tecnico, con i campioni che sono veri perché hanno vinto battendo gli altri nelle stesse condizioni, ma con tempi che sono falsi, e più tempo passa senza che vengano battuti più suonano falsi.
SPEAKER ECCITATI E SPEAKER ANGLOFONI
Concludo con un argomento più leggero, ma che suscita comunque un po’ di fastidio. Riguarda gli speaker delle gare, in particolare dei tuffi e del nuoto. Per motivi diversi, mostrano pecche non giustificabili in manifestazioni così importanti. Comincio dai tuffi per far notare qualcosa che cominciò a essere appariscente sin dai Mondiali 2009 di Roma. La speaker internazionale è una donna, non so se sia sempre la stessa. A Roma c’era anche uno speaker nazionale, un uomo. Il punto è che la speaker ha un tono neutro quando i voti sono bassi o arrivano al massimo a 7 o 7,5. Ma quando diventano più alti ecco che il tono cambia, sempre più entusiasta, fino ad arrivare all’eccitazione più evidente quando si arriva ai 9 e ai 10. So che può sembrare esagerato, ma chi assiste di solito ai Mondiali di tuffi sa di cosa sto parlando e sa che sto semplicemente riferendo quello che gli spettatori ascoltano. Fra l’altro, a Roma, si verificava un contrasto evidente fra il tono dello speaker italiano, sempre uguale con qualsiasi voto, e quello della speaker internazionale. Non è questione di volume, ma di tono eccitato, per descrivere esattamente il quale bisognerebbe scadere nella volgarità, per cui mi fermo qui e ognuno è in grado di capire. Un minimo di serietà, per favore. Resta il fatto che il ruolo dello speaker, soprattutto quando si annunciano nomi e voti, è al di sopra delle parti e delle circostanze, non può essere interpretato come momento di depressione o di esaltazione perché, in un modo o nell’altro, va a scapito della corretta informazione agli spettatori e del rispetto da portare a tutti gli atleti nel medesimo tono, nello stesso modo.
L’altra difetto, per certi versi anche più irrispettoso nei riguardi degli atleti, è quello della pronuncia dei loro nomi. Soprattutto nelle gare di nuoto, c’è il festival degli errori sesquipedali e del trionfo dell’ignoranza. Il problema principale è quello di considerare la lingua inglese come l’unica parlata nel mondo intero. E, bisogna dirlo, questa è una prerogativa delle popolazioni di lingua inglese che, con la massima arroganza, pensano che le regole di pronuncia siano solo quelle che valgono per la loro lingua. E così i nomi di atleti italiani, cinesi, giapponesi, coreani, egiziani, brasiliani, argentini, spagnoli, ungheresi, svedesi, serbi, croati, turchi, sudafricani e così via vengono strapazzati con esiti ridicoli. Si salvano solo gli atleti più famosi, tipo la Pellegrini, il cui cognome è pronunciato correttamente, sia pure con accento “da Stanlio e Ollio”. Eppure, basterebbe un minimo di professionalità per evitare questo scempio. Si va da ogni delegazione con la lista degli atleti di quella nazione e si chiede la pronuncia esatta di ciascuno, così non è possibile sbagliare. Troppa fatica? Non credo. Direi troppa presunzione, quella di credere che esista solo una lingua, che poi, per dirla tutta, è l’ultima inventata dall’uomo. Prima dell’inglese, che tra l’altro deriva per oltre la metà dalla lingua latina, nel mondo si è parlato cinese, giapponese, coreano, arabo, swahili, pashto, dari, persiano, indiano, tibetano, greco, latino e altro ancora, senza arrivare al sanscrito. Agli anglosassoni e in particolare agli americani bisognerebbe far conoscere la barzelletta dello studente cinese che deve presentarsi all’esame di Storia, magari comincerebbero a capire qualcosa di più del mondo in cui viviamo. Lo studente cinese dice: “Ho l’esame di Storia. Ah, come vorrei essere uno studente statunitense, così dovrei studiare solo 200 anni di storia e non cinquemila”. Il punto è che non è una barzelletta!