Era un vincente: una novantina di vittorie, fra cui il record di sei Giri dell’Appennino consecutivi, classiche come il Giro del Piemonte, il Giro del Lazio, il Giro dell’Emilia, il Giro di Romagna, il Giro di Lombardia e il Trofeo Baracchi, e corse a tappe come il Tour de l’Avenir, il Giro di Romandia e il Giro dei Paesi Baschi.
Era anche un eterno secondo: due volte secondo (e una volta terzo) al Giro d’Italia, e secondo ai Mondiali di Sallanches.
Era un campione, era uno scalatore, era Gibì Baronchelli. Era un avversario di Merckx e Hinault, era un compagno di squadra ma restava anche un avversario di Moser e Saronni, era Gibì Baronchelli. Era timido, era riservato, era Gibì Baronchelli. E finalmente, per la prima volta (o quasi), Gibì Baronchelli racconta la sua storia e la storia dal suo punto di vista. Il libro si intitola “Dodici secondi”, lo ha scritto Gian-Carlo Iannella per Lyasis Edizioni, la prefazione è del nostro senator Marco Pastonesi. E ve la proponiamo in anteprima.
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Tenevo ad Arnaldo Pambianco, illuso che si trattasse del garzone di una panetteria, invece era garzone, ma di una macelleria. Tenevo a Italo Mazzacurati, convinto che la vera corsa si facesse in fondo al gruppo, e non in testa. Tenevo a Germano Barale, certo che se ci fosse mai stato un campionato del mondo di chi riempie per primo la borraccia, lui avrebbe vinto sia nella categoria fontane sia – “paga Torriani!” – in quella bar, trattorie, osterie e affini. Tenevo a Dino Zandegù, consapevole che se non le avesse cantate ai suoi avversari, le avrebbe cantate almeno ai suoi tifosi, e sempre in diretta tv. Così come poi avrei tenuto a Marzio Bruseghin, sedotto dai suoi asini e dai suoi vini, e a Charly Wegelius, affascinato dai suoi tredici anni di professionismo (compresa la stagione da stagista) senza vittorie, e quando lui mi precisò che due cronosquadre se l’era aggiudicate, io – stupito e quasi offeso – gli spiegai che in fondo non era stata colpa sua. Così come ora tengo ad Alan Marangoni, al decimo anno di professionismo immacolato da successi, e anche al suo fan club, di gran lunga il migliore nell’organizzare il rifornimento (piadine varie e, sotto banco, bicchieri di Lambrusco, Albana o Pagadebit) per spettatori, sportivi e tifosi.
Si tiene a un corridore per il cognome, per la faccia, a volte per la maglia, spesso per le vittorie e pure per le sconfitte, una sconfitta può valere più di cento vittorie, penso al Mondiale di Gap che ha regalato milioni di tifosi a Franco Bitossi, secondo, sottraendoli a Marino Basso, primo. Si tiene ai corridori per la terra di origine, il campanile, la città, la valle, la regione: un sardo si sentirà spinto a tenere per Fabio Aru, un friulano per Alessandro De Marchi, un lucano per Domenico Pozzovivo, così come un ligure teneva a Giuseppe Perletto e generazioni di abruzzesi tenevano, sostenevano e forse mantenevano Vito Taccone. Si tiene ai corridori per eredità familiare, ma anche per una biglia, per un berretto, per un “ciao mama!”, per una smorfia su un tornante, per un brivido in una volata, per una cotta su una salita, per una fuga con o senza lieto fine.
Si tiene a un corridore e, a differenza di quanto succede negli sport di squadra, al suo ritiro dall’attività si è costretti a passare a tenere per un altro, anche se – per fortuna – a questo drammatico punto si arriva già preparati, fra simpatie e affinità, preveggenze e predestinazioni. Si tiene a un corridore anche retroattivamente, pedalando fra i libri in archivio o in biblioteca: come si può non tenere a Giovanni Gerbi, i cui amici si travestivano da vigili urbani e deviavano il gruppo fuori strada?, come si può non tenere a Meo Venturelli, capace di correre un Giro del Lazio in mocassini perché si era dimenticato le scarpe da corridore a casa?, e come si può non tenere a Giuseppe Poli, maglia nera al Giro d’Italia del 1968, a tre ore, quarantatrè minuti e cinquantotto secondi da Eddy Merckx, che a una media di 36,03 all’ora significava più o meno 135 chilometri di distacco dal Cannibale, ma che nella vita di tutti i giorni, anche quelli delle corse, non si tirava mai indietro?
Confesso che avrei dovuto tenere a Baronchelli, anche a Baronchelli, che noi chiamavamo GiBì invece di Tista, e già questo la dice lunga sulla nostra, sulla mia colpevole ignoranza. Ma adesso, finalmente, si può rimediare. Questo è un libro che descrive corse dalla pancia del gruppo, che affresca paesaggi a quaranta all’ora, che tratteggia personaggi più o meno rotondi, che fra mozzi e raggi rivela retroscena e fra gran premi della montagna e traguardi volanti svela misteri, e che dal suo punto di vista – quello del Tista – racconta la storia di un uomo a pedali, classificato come ragazzo prodigio e campione mancato, e invece uomo vero, semplice, sincero, soffocato dalla concorrenza, e anche dalla riservatezza, ma che è possibile recuperare, scoprire, apprezzare, rispettare, ammirare, valorizzare, ricordare, tramandare. Insomma, un uomo a pedali cui tenere, con premura, con affetto. Ancora. Di nuovo. Per sempre.
Marco Pastonesi