Napoli vista dal mare, la sera dello scudetto, si confonde con il cielo. Nel buio migliaia di stelle, senza un confine fra terra e universo. Guardi e ti confondi con la Notte stellata di Vincent Van Gogh. Anzi, non è una sensazione, è davvero la stessa cosa, nella forma e nella sostanza, nella bellezza e nel mistero. E da lontano ogni fuoco creato dai napoletani, così come ogni sole gigantesco distante anni luce, appare come la fiammella di una candela in una celebrazione sacra e profana insieme.
Emozioni incrociate nel tempo che scorre. Osanna per gli eroi vincitori, di oggi e di ieri; Riconoscenza eterna per chi non ci è riuscito, ma ha comunque costruito le fondamenta del trionfo; Memoria commossa per chi non c’è più, protagonisti nello sport e nella storia di questa città, a cominciare dagli sconosciuti e umili cittadini figli di Partenope, giudicati perdenti dai senza cuore, ma che hanno creato, pezzo dopo pezzo, l’anima vera di Napoli.
E nella speciale Cappella Sistina partenopea, ecco rappresentato il dio Totò che dà la sua benedizione al popolo, con al suo fianco Diego Maradona, l’eletto, con Omar Sivori vicino, e la schiera di angeli, arcangeli, cherubini e serafini: Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, Massimo Troisi, Pino Daniele, e poi Salvo D’Acquisto a rappresentare tutti coloro che diedero la vita per la liberazione dal fascismo e per la libertà dell’Italia.
E un posto speciale in questa rappresentazione va a chi, agli occhi del mondo, è sempre apparso come il simbolo di questa città: gli scugnizzi. Per tutti loro, un nome solo, Gennarino Capuozzo, eroe omerico, morto a 11 anni, ucciso dai nazisti mentre scagliava una bomba contro un carro armato nella sollevazione popolare passata alla storia come “Le quattro giornate di Napoli”. E’ vera gloria la sua, ancor di più se confrontata con il tentativo di riscrivere la narrazione di quella guerra. Tanti “storici da poltrona” si divertono a falsificare la lotta di popolo raccontando che la liberazione fu fatta dagli americani e non dai partigiani, dileggiando e sbeffeggiando in questo modo il sacrificio degli italiani. E fanno finta di ignorare che Napoli fu liberata soltanto dai napoletani, che la Quinta armata Usa del generale Clark entrò in città senza combattere, perché tedeschi e fascisti erano già scappati, idealmente accolta da un tappeto rosso, ma del sangue di umili piccoli grandi eroi coraggiosi come Gennarino Capuozzo. Ogni volta che Napoli viene celebrata, nello sport e per ogni altra ragione, c’è sempre un posto speciale per tutti loro.
Non può mancare la musica, altra anima di Napoli, in questa solenne Messa laica. E il riferimento è uno solo, anche se, col passare degli anni, tante sovrapposizioni di colonne sonore ci sono state. Si deve tornare al 10 maggio 1987, il giorno del primo scudetto. Tante memorie sbagliate, come quella di un ‘O sole mio cantato dai tifosi, ma una sola vera, quella di chi quel giorno era al San Paolo, pieno di centomila persone già tre ore prima dell’inizio, quando si poteva entrare con panini e bottigliette d’acqua per mangiare e bere nell’attesa della partita, sotto un sole cocente. E quel giorno una sola canzone risuonò nello stadio, il vero inno del Napoli: ‘O surdato ‘nnammurato. Aspettarono gli ultimi minuti a cantarla, a voler essere sicuri dello scudetto, e poi a squarciagola, “Oje vita, oje vita mia, oje core ‘e chistu core, si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me”.
Ma questa canzone ha un significato particolare, un valore che va al di là dei confini della città per estendersi a tutto il mondo, qualcosa che gli stessi napoletani magari nemmeno immaginavano. Successe che molti anni prima fu organizzato uno spettacolo speciale con i due Balletti più famosi del mondo, il Bolscioi di Mosca, simbolo della tradizione classica, e il Ballet du XXe siècle, fondato a diretto da Maurice Béjart, autentico innovatore della scuola, pur restando rispettoso dei principi fondamentali del balletto. Il Bolscioi ha nel Lago dei cigni, di Chaikovskji, la sua espressione massima; Bejàrt ha rivoluzionato il Bolero di Ravel con una coreografia rimasta famosa, interpretata da Jorge Donn e trasportata anche in un film di Claude Lelouch, “Gli uni e gli altri” il titolo originale francese, trasformato in “Bolero” in Italia e in altre parti del mondo.
Lo spettacolo fu trasmesso dalla Rai. Ogni Balletto, alternativamente, si esibiva in un brano musicale rispettando i propri canoni. Alla fine del programma, i ballerini delle due Compagnie danzarono insieme, una conclusione originale che rimarcava le affinità dei due modi di interpretare la musica. Bisognava scegliere un brano e c’era curiosità su quale sarebbe stato. Con i ballerini schierati sul palcoscenico si avvia la musica, si sente il suono di una chitarra, una cadenza che appare familiare, qualcosa che già si era sentito, ma non nelle rappresentazioni di musica classica. Poi, all’improvviso, tutto è chiaro, una voce che intona i versi, un ritmo travolgente e pieno d’amore: Massimo Ranieri canta ‘O surdato ‘nnamurato. E’ la versione registrata il 23 gennaio 1972 al teatro Sistina di Roma e pubblicata su un 33 giri che come titolo ha proprio quello della canzone scritta dal poeta Aniello Califano e musicata da Enrico Cannio nel 1915.
Le due più famose compagnie di balletto del mondo, nel momento in cui devono decidere una musica comune da interpretare, non scelgono un brano dei più grandi compositori della storia, il simbolo di una cultura “alta”, un presunto riferimento “superiore”. Scelgono una musica popolare, bellissima, che esprime sentimento, emozioni, passione e amore nella sua forma più pura, e proprio per questo si eleva su tutto e diventa universale. E’ un inchino di fronte alla vera nobiltà, quella della gente umile e generosa. E’ il segnale decisivo.
Il sangue di Napoli scorre nelle vene del mondo intero. Il battito del cuore di Napoli segna il ritmo dell’universo.
(foto tratta dal corriere dello sport)