Avevo 22 anni e una finale giocata a Wimbledon pochi mesi prima, quando il destino mi portò in l’Italia. La federazione australiana aveva già perso Laver e Rosewall che erano passati professionisti; e con me, Emerson, Stolle, Hewitt e Fletcher erano severissimi. Dal 1° ottobre al 31 marzo non potevamo fare tornei all’estero. Decidemmo di scappare, tra virgolette perché nessuno ci vietava di uscire dall’Australia. Era il febbraio del 1963, così ci sparpagliammo per il mondo e io mi fermai a giocare in Egitto, poi arrivai in Italia.
Il secondo momento chiave fu l’incontro con Nicola Pietrangeli. Sirola si era da poco ritirato e Nicola stava cercando un nuovo compagno di doppio. Fu il suo modo di fare e la sua amicizia a farmi innamorare dell’Italia e degli italiani. Giocai gli Internazionali d’Italia e vinsi il torneo. Poi mi presentò Giorgio De Stefani che era il presidente della Fit; mi diedero tutta la disponibilità possibile. Mi allenavo a Formia con Mario Belardinelli e poi giravo per quello che stava diventando il mio Bel Paese. Ho vinto dappertutto: Viareggio, Novara, Cortina d’Ampezzo, Capri, Stresa, Napoli, Palermo, Catania e 3 volte gli Internazionali.
Tutto questo faceva parte di un destino che sembrava scritto: i genitori di mia mamma erano nati a Orsago (Tomei, il cognome materno, ndr), tra Vittorio Veneto e Conegliano. Poi sono venuto da voi, ho sposato una ragazza italiana e i miei figli sono nati a Roma. Per un regolamento dell’epoca se vivevi da almeno 3 anni in un altro pease e non avevi più giocato per la tua nazione, potevi partecipare alla Coppa Davis per la nuova squadra. Così raccontaì la storia che mia mamma aveva i genitori italiani e nel 1968 debuttai a Cagliari in Coppa Davis con Pietrangeli: vincemmo 5-0.
Perdemmo a Barcellona con la Spagna nella finale di Zona europea. Poi cambiò il presidente federale e Luigi Orsini mi disse che l’opinione pubblica non era favorevole al mio impiego in nazionale. Fu la stampa dell’epoca a boicottarmi perché la Federazione, che continuò a mettermi a disposizione tutto, si è sempre comportata bene con me. Scrissero che non avevo un cuore italiano, ma si sbagliavano. Io mi sentivo italiano, tutti i compagni di squadra che ho avuto mi hanno aiutato, la gente mi voleva bene, soprattutto a Roma, mia mamma era totalmente di sangue italiano. Ma a distanza di anni, sono quasi 50, non c’è rancore, solo il ricordo di una bella e lunga esperienza di vita.
Oggi ho quasi 77 anni e quelli che erano i miei pensieri di allora si mescolano con quello che la vita mi ha insegnato. Mia mamma non mi ha mai detto nulla per le scelte che ho fatto. Se oggi tuo figlio ti dice “vado a lavore in Australia”, sei contento per lui, ma sei triste per te. E’ normale. E lei era in parte sollevata perchè avevo scelto la sua Italia. Quando tornavo in Australia era sole per vacanza; da dopo i Campionati d’Australia del 1964 non mi hanno fatto più giocare.
Si è scritto e detto tanto su di me. Io non ho mai chiesto o avuto il passaporto italiano, non sono mai stato italiano, ma lo ero dentro, per cultura, per modo di vivere, per carattere. Però forse non era giusto che prendessi il posto in nazionale a un ragazzo italiano. Vivo negli Stati Uniti da tanti anni, ma quello che hanno fatto gli italiani per me non l’hanno fatto da altre parti. Quando lasciai l’Australia per giocare all’estero, la federazione australiana scrisse a quella internazionale vietando di mettere “Aus” accanto al mio nome.
Martin Mulligan