Dopo la netta sconfitta contro l’Irlanda a Chicago, l’Italia della palla ovale torna in campo a Firenze sabato pomeriggio (ore 15, diretta DMAX) nel test-match meno nobile dei quattro in programma (dopo l’Irlanda e i caucasici, sfideremo l’Australia a Padova e la Nuova Zelanda a Roma) contro la Georgia. Certo, il match meno affascinante ma quello tremendamente più importante di tutti. Mai come oggi la situazione dell’Italia nel Sei Nazioni è critica. Da diversi anni vengono sollevati dubbi sull’opportunità della nostra nazionale di rimanere nel gotha del rugby europeo, nel torneo più antico e prestigioso che ci ha visto dal 2000 giocare 95 partite vincendone solo 12 (il 12,6%). Oltre alla caterva di sconfitte, è il modo netto e spesso scontato con cui queste sono arrivate, specie nell’ultimo periodo, ad aver messo in discussione persino la nostra permanenza nel torneo.
La generazione dei Bortolami, dei Parisse, dei Castrogiovanni, in pratica la squadra capace di centrare nel 2007 la prima vittoria esterna a Edimburgo con la Scozia e poi sette giorni dopo di ripetersi al Flaminio contro il Galles non ha avuto ricambi all’altezza. Nel 2007 sulla panchina azzurra sedeva Pierre Berbizier, i suoi successori Nick Mallet e Jacques Brunel hanno offerto qualche prestazione entusiasmante (su tutte le magnifiche vittorie sulla Francia al Flaminio nel 2011 il primo e due anni più tardi il secondo), ma nel complesso non sono riusciti a dare quella continuità di risultati che ci è di fatto sempre mancata. L’arrivo di Connor O’Shea è coinciso col botto: prima vittoria in assoluto contro una delle tre grandi dell’Emisfero Sud, nel test-match diFirenze nel 2016 contro il Sudafrica. Un successo tanto prestigioso quanto effimero: la successiva sconfitta contro la selezione dei giocatori di Tonga, Samoa e Fiji riportò tutti coi piedi per terra, ma a sprofondare di diversi metri ci hanno pensato tre cucchiai di legno consecutivi senza lo straccio di una vittoria. Non avrebbe alcun senso imbastire processi al ct, che ha comunque il merito di aver allargato molto il bacino di giocatori nel giro della Nazionale, senza mai temere il rinnovamento anche quando comportava una dura contropartita nei risultati a breve termine. Ora però l’Italia non può più aspettare, la pazienza di addetti ai lavori e stampa estera non è infinita. Senza mai vincere, le nazionali dietro di noi nel ranking si sono fatte sotto e proprio la Georgia ha finito col superarci. Il ranking mondiale vede gli azzurri al 14° posto e i nostri prossimi avversari al 13°. La classifica non è mai bugiarda e infatti da tempo i georgiani stanno facendo bene, al punto che qualche tempo fa il Telegraph si chiedeva provocatoriamente: “Se un tifoso georgiano ci chiede ‘perchè se c’è l’Italia non possiamo esserci anche noi’, che cosa potremmo rispondergli?“. Potremmo anche difenderci sottolineando la diffidenza, quasi la prevenzione, che la stampa britannica non ci ha sempre riservato, ma diventerebbe quanto meno ardito sostenere la stessa tesi verso l’algoritmo che stila la classifica mondiale… Ecco perché un’eventuale sconfitta sabato sarebbe devastante. A quel punto davvero il Six Nations Rugby Ltd dovrebbe interrogarsi sull’opportunità di mantenere la situazione così com’è, di fatto ignorando la realtà delle cose, oppure prendere provvedimenti. Il nemico peggiore degli azzurri è proprio scendere in campo avendo tutto da perdere e niente da guadagnare. Vincere significa fare il proprio dovere, perdere aprire una voragine con conseguenze imprevedibili.
COSA SUCCEDERA’ IN CASO DI SCONFITTA?
Naturalmente, gli effetti non saranno immediati, anche perché una volta deciso che l’Italia non ha più titolo della Georgia per sedere al tavolo dei grandi il Board dovrà decidere che fare.
La soluzione più tradizionalista, in linea con il rigore britannico, la sacralità del torneo e, tanto per essere chiari, lo snobismo british, sarebbe quella di tornare al Cinque Nazioni. Perché tenere dentro quella che sarebbe comunque la pecora nera della comitiva? È o non è il torneo per rappresentative nazionali più antico del mondo, riservato ai migliori e per questo prestigioso? Verrebbe da rispondere, ormai rassegnati, “Yes, Sir”, ma il rugby non è più quello romantico delle maglie di cotone rigorosamente monocolore e neanche l’ombra di uno sponsor sopra, del pallone marrone fatto di budello di maiale, delle tribune in legno dell’Arms Park di Cardiff o del Lansdowne Road di Dublino che trasudavano umidità e orgoglio nazionalistico. Quel rugby era l’essenza del dilettantismo e aveva un fascino incredibile, che molti ora rimpiangono, ma la sua espansione ha inevitabilmente sancito prima la storica svolta verso il professionismo del 1995 e, di anno in anno, un naturale incremento del fattore business. E il business non può accettare che il torneo più importante d’Europa preveda una partita in meno di oggi e una squadra che riposa mentre le altre giocano, con relativo giro d’affari che viene a mancare. Ecco perché il Cinque Nazioni non tornerà mai più.
Sempre il fattore business ci suggerisce che per i tifosi di Francia, Regno Unito e Irlanda l’appeal di Roma è cosa ben diversa da quello di Tbilisi. L’idea di organizzare una trasferta rugbisticasotto il sole della Città Eterna ispira molto di più della visita nella fredda e impervia capitale georgiana. Finito il match, il tifoso a Roma è circondato dalla storia dell’Antica Roma in ogni angolo, a Tbilisi da un connubio di stile georgiano e modernismo sovietico che – con tutto il rispetto – non può specie in Inverno competere con l’attrattività di Roma. Il business, insomma, che salva l’Italia dalla sportivamente meritevole ma commercialmente povera Georgia (meno di 4 milioni di abitanti)… È a questo punto che entra in scena il fautore delle fortune dei figli di San Giorgio.
L’ALL BLACK DEL CAUCASO
“Business? Scusi la franchezza, ma devono solo dirci quanto costa il biglietto”, ha risposto diretto Milton Haig, neozelandese di Invercargill a Paolo Ricci Bitti del mensile All Rugby. 54 anni, neozelandese di Invercargill, è al timone della nazionale georgiana dal 2011. Per la verità, Haig non ha mai giocato negli All Blacks, ma ha un lungo passato di giocatore prima in patria e poi in Sudafrica e Inghilterra. Come allenatore, è stato Resource Coach per la federazione neozelandese, seguendo le selezioni All Blacksgiovanili. Dal 2011 allena la Georgia, che con lui ha vinto dal 2014 quattro Rugby Europe Championship su cinque (di fatto il campionato europeo per le nazionali non appartenenti al Sei Nazioni, fino ai primi Anni Duemila noto come Fira), conquistando sempre il Grande Slam. Già prima la Georgia aveva vinto diverse volte il torneo europeo cadetto (dove la maggiore avversaria è la Romania, nostra sorella povera prima dell’ingresso dell’Italia nel torneo dei grandi), ma la continuità di risultati portata da Haig ha avuto seguito anche nell’ultima Coppa del Mondo del 2015, che ha visto la nazionale est-europea vincere per la prima volta due partite, contro la Namibia e Tonga, guadagnandosi automaticamente la partecipazione alla Web EllisCup dell’anno prossimo in Giappone. Questi risultati hanno portato la nazione di San Giorgio fino al 12° posto del ranking mondiale, scavalcando l’Italia.
Peraltro, l’allenatore kiwi ha mostrato nel resto dell’intervista al magazine All Rugby di avere i piedi ben saldi a terra: “Non chiediamo né di sostituirci all’Italia, né di allargare il Sei Nazioni a sette o otto squadre, né d’introdurre un sistema di promozioni e retrocessioni. Chiediamo solo di misurarci con regolarità con le squadre del Sei Nazioni per verificare il nostro valore”. Esattamente la stessa possibilità che fu offerta all’Italia quando era nell’identica situazione della Georgia di oggi. Nell’anno d’oro 1997 battemmo prima l’Irlanda a Dublino e poi la Francia a Grenoble (l’anno dopo superammo anche la scozia a Treviso), togliendo così anche ai più tradizionalisti ogni dubbio sul nostro diritto di entrare nel Sei Nazioni. Haig sostiene di avere grande stima dell’Italia e dei suoi tecnici: non sono parole di circostanza se pensiamo che alla Coppa del Mondo 2015 ha collaborato con l’irlandese Michael Bradley, oggi allenatore delle Zebre.
GRINTA, COESIONE E TOP14
Gli avversari che più dovremo temere sono i piloni Chilachava e Kakovin, il terza linea Koleilishvili e il seconda linea Mikautadze, tutti protagonisti del Top14 francese, come la stella Mamuka Gorgodze, detto Gorgodzilla (in effetti proprio piccoletto non è…), che a Firenze non ci sarà perché infortunato. Oltre ai giocatori del campionato francese, avremo davanti un intero gruppo solido come la roccia, plasmato in questi otto anni di lavoro da Haig (solo il connazionale Warren Gatland siede più a lungo sulla panchina di una nazionale, alla guida del Galles dal 2007), che ancora non finisce di stupirsi delle loro dedizione e grinta dopo tutti questi anni insieme.
LO SCENARIO CHE SPAVENTA L’ITALIA
Tornando agli azzurri e al rischio di venire travolti dal cambio di format del Sei Nazioni, è proprio una delle proposte che l’head coach della Georgia non avanza direttamente quella più auspicabile per noi. Mantenere sei squadre ma introducendo il criterio della possibile promozione e retrocessione. La “Serie B” verrebbe rappresentata di fatto dall’attuale Rugby EuropeanChampionship, che darebbe alla nazionale vincitrice la possibilità di disputare un play-off contro l’ultima classificata del Sei Nazioni. Una partita secca in campo neutro da Paradiso e Inferno, chi vince gioca il Sei Nazioni, chi perde si barcamena tra le nazioni di seconda fascia. Una formula paradossalmente nell’interesse dello stesso movimento italiano, che in questi anni non ha saputo crescere senza un pungolo esterno che arriverebbe dalla prospettiva di sfidare avversari molto meno nobili di Francia e Inghilterra. Ovviamente non basterebbe questo spauracchio a migliorare l’Italia del rugby, ma di certo costituirebbe un buon punto di partenza, quanto meno per chi ha sempre potuto contare su introiti sicuri che fra pochi anni potrebbero sparire. Già, quali sono questi avversari, oltre alla Georgia?
LE NAZIONALI DELL’EUROPEO CADETTO
La sopra citata Romania è la rappresentativa con maggiore tradizione, costante mina vagante alla Coppa del Mondo e attuale n.17 della classifica. Ne sappiamo qualcosa noi che nel 2007 avevamo la squadra più accreditata di sempre per raggiungere gli agognati quarti di finale e che contro i rumeni stavamo per compromettere tutto anzitempo. Nel primo tempo l’Italia vide i sorci verdi e si trovò a lungo sotto nel punteggio, prima che Berbizier corse ai ripari buttando in campo tutti i big che aveva inizialmente deciso di tenere a riposo, Troncon su tutti. Alla fine la scampammo per 24-18, per poi vedere sfumato il sogno di qualificazione ai quarti dopo una partita tiratissima contro la Scozia (ancora i nostri cuori sanguinano per quel piazzato finale di Bortolussi che non rientrò abbastanza per centrare i pali). Il livello attuale della nazione latina è testimoniato dal successo nell’”Europeo cadetto” del 2017, che ruppe il dominio georgiano nel decisivo scontro diretto vinto 8-7, e dai risultati dei club. I Timisoara Saracens stanno disputando la Challenge Cup di quest’anno, cui partecipano anche le franchigie italiane del Pro14 (Benetton Treviso e Zebre Parma).
Dietro Georgia e Romania, si alternano diverse nazionali, come Russia, Belgio, Portogallo, Spagna e Germania. I belgi, al n.25 del ranking, schierano quest’anno una selezione dei migliori giocatori – i Barbarians XV – nella Continental Shield (che vede oltre a loro la partecipazione di 4 squadre italiane e una georgiana, la Locomotiv Tbilisi). I russi occupano attualmente la 19° posizione mondiale, la Spagna la 20° e il Portogallo la 24°.Citiamo non a caso anche la Germania, più distaccata nelle gerarchie (29° posto del ranking), perché commercialmente appetibile. L’aspetto in sè sarebbe insufficiente (e sportivamente discutibile, come lo è per l’Italia in ottica di difesa del Sei Nazioni), ma nel rugby professionistico il famoso fattore business bisogna, piaccia o non piaccia, tenerlo in considerazione. Soprattutto se osserviamo come il movimento teutonico stia facendo significativi passi avanti. Quest’anno per la prima volta una squadra tedesca ha acquisito il diritto di giocare una delle due competizioni europee maggiori: l’Heidelberger RK ha raggiunto la Challenge Cup grazie alla finale della Continental Shield 2017, conquistata superando anche Calvisano (tanto per ricordare che nessuno gioca un torneo per caso o grazie al business). Il fatto che poi i tedeschi siano stati esclusi dalla Challenge Cup per un problema di conflitto d’interessi legato il suo principale finanziatore non toglie nulla ai meriti sportivi del movimento.
Insomma, sabato prossimo l’Italia del rugby giocherà a Firenze uno dei match più importanti della sua storia. L’obiettivo, per nulla scontato quando si ha tutto da perdere, è fare in modo che venga ricordato come una prevedibile vittoria contro una squadra emergente ma sotto il nostro livello, e non come il possibile inizio del processo che ha portato gli azzurri ad essere più spesso opposti a Romania e Russia piuttosto che a Inghilterra e Irlanda.
Ruggero Canevazzi