Il personaggio Manga che le è stato confezionato addosso come eroina delle adolescenti è davvero perfetto per Naomi Osaka. Oggi è lei l’unica vera leader mondiale del tennis donne, quella capace di trainare le masse e gli sponsor, rimanendo se stessa in un contesto affatto semplice. E’ stata lei l’unica che ha alzato la voce e ha legato il proprio sport a quello mondiale sul delicatissimo tema della discriminazione razziale come paladina del “black lives matter”, “le vite dei neri hanno importanza”. Che, dal 25 maggio, ha bloccato lo sport statunitense sull’onda dell’ennesima persona di colore uccisa dal polizia, George Floyd a Minneapolis.
Lei, la piccola, volitiva Naomi, il 27 agosto, quando anche Jacob Blake si è aggiunto alla terrificante lista, a Kenosha, nel Wisconsin, ha incrociato le braccia, rinunciando alle semifinali di New York, con un tweet-proclama – “voglio aprire un dibattito in uno sport di maggioranza bianco” -, costringendo il tennis a interrogarsi e a fermarsi. E, una volta ottenuta l’attenzione del suo sport e del mondo, una volta ottenuto un giorno di pausa del torneo da parte degli organizzatori, è tornata in campo, indossando una T-shirt con la scritta “Black Lives Matter” col chiaro intento di ricordare che non ha di certo dissotterrato l’ascia di guerra.
“Come sapete, ieri mi sono ritirata dal torneo a sostegno dell’ingiustizia razziale e delle continue violenze della polizia. Ero (e sono) pronta a concedere la partita alla mia avversaria. Tuttavia, dopo il mio annuncio e la lunga consultazione con la WTA e l’USTA (la Federtennis Usa), ho accettato la loro richiesta di giocare venerdì. E nella mia percezione questo porta più attenzione al movimento”. Così, in un colpo solo, è diventata un esempio, un simbolo, un punto di riferimento di un intero cartello oltre che di tantissime adolescenti giapponesi e delle minoranze multirazziali. Anche se, in patria, il suo gesto è stato molto criticato, a cominciare dai social media.
Non è facile essere Naomi Osaka. Non badate alle apparenze: a 23 anni, ha già conquistato due Slam fra i sei titoli WTA, è già salita al numero 1 del mondo ed è la tennista più pagata, col nuovo record di 37 milioni di euro incassati in un solo anno, spodestando la mitica Maria Sharapova.
Ma quel che più colpisce di lei, è che ha conquistato la stima della gente partendo da una storia complicata: è nata nella città giapponese di Osaka, da madre giapponese (Tamaki) e padre haitiano (Leonard Maxine François), è cresciuta dai tre anni a New York, sulla scia del sogno di papà di diventare il nuovo Richard Williams, si è trasferita a nove anni in Florida, nella palestra dello sport Usa, e quindi, una volta raggiunta la maggiore età, ha abbracciato la bandiera giapponese e non quella a stelle e strisce anche per la scarsa attenzione della Federtennis Usa (USTA) fino ai primi eclatanti risultati, a sedici anni.
Una scelta delicata e discutibile, considerando che comunque risiede negli Stati Uniti praticamente da sempre. Del resto, mamma Osaka è stata ripudiata dalla famiglia per più di dieci anni per aver avuto una relazione all’epoca tabù col futuro papà Osaka, uno straniero, peraltro di colore, non aveva rispettato il matrimonio combinato dai propri genitori ed aveva quindi lasciato la natìa Sapporo per trasferirsi a Osaka, dove s’era trovata un lavoro.
Naomi ha più volte rivelato di non sentirsi pienamente integrata in Giappone come negli Usa, nei primi tornei WTA non parlava nella lingua madre coi media del suo paese per paure di commettere errori e imprecisioni. Quindi non avverte come dispregiativo il termine Hafu – parzialmente asiatica o comunque discendente da abitanti delle isole dell’oceano Pacifico – restituendo dignità alle minoranze razziali. “Non so come dovrei sentirmi da giapponese, haitiana o americana. In realtà, mi sento come me”.
Chi meglio di Naomi Osaka poteva prendere posizione su problemi così delicati? “Parlo perché credo nel movimento e voglio provare a utilizzare la mia piattaforma per facilitare il cambiamento. L’assassinio di George Floyd e la situazione generale in America hanno avuto un grande impatto su di me. Tacere non è mai la risposta. Tutti dovrebbero dire la loro in materia”.
Confortata da un milione di followers su twitter, la formidabile tennista si distacca dall’uniformità delle colleghe e partecipa alla crociata, inserendosi con tanti altri atleti di altri sport nella scia di Colin Kaepernick, il quarterback che non ha più trovato una squadra nella NFL dopo essersi inginocchiato durante l’inno statunitense per protesta contro le uccisioni dei cittadini neri da parte della polizia.
“Non avrebbe dovuto essere così. Se la NFL vuole dimostrare che le importa davvero la prima cosa che dovrebbe fare è inginocchiarsi insieme e ridare a Colin il suo lavoro. Invece qualcuno ha anche detto che noi atleti dovremmo occuparci solo dello sport e questo è davvero offensivo. Sono centinaia di anni che cerchiamo un cambiamento e credo che questa volta ci sia un’atmosfera e un’energia diverse, con tante proteste. Quindi sono fiduciosa nel cambiamento, continuo a battermi e chiedo un futuro migliore per le prossime generazioni”.
Eppure, questa saggezza stride con lo choc che la ragazza ha subito, a 20 anni appena, quand’ha battuto clamorosamente Serena Williams nella prima finale Slam della carriera, agli Us Open 2018, con tutto lo stadio contro, schierato cioé a favore dell’idolo degli afro-americani, lontana appena un Major dal record di 24 tacche di Margaret Smith Court.
In quei momenti così difficili, Naomi ha regimo alla violenza con estrema e compostezzaa davanti ai microfoni in campo, anche se tratteneva visibilmente le lacrime. Poi, soltanto più avanti, ha spiegato: “Non voglio che la gente mi veda piangere, è patetico”.
E ha addirittura esaltato l’avversaria, la grande Serena Williams, che pure le aveva tentate tutte pur di sbalestrarla, per poi recuperare in extremis, chiedendo alla gente di smetterla di fischiare contro la vincitrice e invitandola ad applaudirla. Così, la Osaka aveva vinto due volte contro la donna, lei, giovanissima outsider, ha dato un’altra lezione alla favorita: “Serena è Serena. Non ho niente contro di lei, la amo sempre tanto”.
Ed aveva dato una lettura personale e intelligente della vicenda che era invece scabrosa ed antipatica, alla prima finale Slam proprio contro il suo idolo: “In un mondo perfetto, le cose andrebbero esattamente come le immagini. Ma penso che sia più interessante la vita reale, dove le cose non vanno esattamente come hai pianificato. Ci sono situazioni che non ti aspetti, ma penso che quelle situazioni esistano proprio per preparare quelle future”.
Brava, bravissima, Naomi Osaka è il personaggio di cui lo show business aveva bisogno, la star internazionale con più connotazioni: americana caraibica e giapponese. Che in una società in cui le nazionalità continuano a mescolarsi, diventa ancor più desiderabile.
Tanto che, quand’ha visitato Haiti, è stata accolta come un’eroina, in Giappone è considerata una pop-star al punto che durante una visita a Tokyo è sfuggita ai fans da una uscita di servizio dell’hotel che l’ospitava, e la sua immagine campeggia ovunque, soprattutto in vista dell’Olimpiade del prossim’anno.
Del resto, è la prima giapponese ad aggiudicarsi un torneo dello Slam, è una pioniera nello sport di un piccolo-grande paese. Che, avanti al successo, cancella finalmente i pregiudizi di un paese fra i più omogenei del mondo, con il 98% della popolazione di etnia giapponese.
*articolo ripreso da https://www.supertennis.tv/News/Campioni-internazionali/Naomi-Osaka-personaggio