Il 27 febbraio 1988, in diretta su Rai Uno, Miguel Bosè e Gabriella Carlucci conducono la serata finale della XXXVIII edizione del Festival della canzone italiana. Scenografia minimale, bagliori di neon verdastri a delineare il palcoscenico. Ventisei concorrenti in gara per la vittoria del Festival: Massimo Ranieri, Luca Barbarossa, Toto Cotugno, Ricchi e Poveri passando per Alan Sorrenti, i Matia Bazar, Tullio De Piscopo e Franco Califano, giusto per citare qualche nome. Share televisivo che si assesta al 71.01% e che si traduce in più di quindici milioni di italiani piazzati davanti alla tivù a intervalli irregolari tra le 20.30 e le 2.00 del mattino.
“Perché Sanremo è Sanremo” canterà Rudy Neri dei Prefissi in quella che sarà la sigla del Festival dal 1996 al 2002 e anche allora la kermesse monopolizza ogni discussione: giornali, radio, televisioni e poi c’è quel pezzo di Massimo Ranieri, “Perdere l’amore”, presentato l’anno prima da Gianni Nazzaro ma scartato alle selezioni e che ora tutti danno come possibile vincitore.
Sulle labbra degli sportivi italiani, però, affiora di tanto in tanto anche un altro tema. A 8.068 km di distanza, la gente di Calgary, Alberta, gongola per le Olimpiadi invernali tornate a disputarsi oltreoceano, in Canada, dopo la problematica edizione di Sarajevo nel 1984. L’organizzazione è un trionfo. Per il paese degli aceri è la prima volta nella versione “bianca” della manifestazione a cinque cerchi. E al cancelletto c’è un pezzo d’Italia che risponde al nome di Alberto Tomba. Carabiniere, un anno prima era praticamente sconosciuto, poi un fortunoso terzo posto nel gigante al mondiale di Crans-Montana fa accendere i riflettori su questo ragazzone emiliano di 20 anni. A Calgary le stimmate del predestinato erano ormai ben impresse. In via Mazzini hanno l’esclusiva televisiva dell’evento.
Dopo la prima manche andata in onda nel pomeriggio, la Rai decide audacemente di interrompere la diretta della finalissima del Festival per trasmettere la seconda manche dello slalom speciale. Un evento irripetibile. Del resto, tra colonne nazionalpopolari ci si riconosce al volo.
L’Ariston sulle prime è spiazzato. Qualcuno al solo sentir parlare di Tg accenna qualche protesta – “Non è un Tg normale! Ci colleghiamo con Calgary per vedere che cosa fa il nostro Tomba!” – taglia corto la Carlucci. La regia televisiva si allontana dal palco, l’iconica scalinata si apre per far spazio al maxischermo. Brusco stacco ed ecco apparire Tomba in tuta bianca e blu con in sottofondo la voce di Marco Franzelli. Alberto è terzo. C’è da battere il campione del mondo ‘87 Frank-Christian Worndl, il più veloce nella prima manche.
Occorre fare un passo indietro. Siamo a metà degli anni Sessanta, Alberto Tomba cresce in una piccolissima frazione sulle colline di San Lazzaro di Savena, in un paesino che si chiama Castel de’ Britti, sull’Appennino emiliano. Bologna è lontana. Lontane sono anche le montagne. Eppure, Alberto ha una certa passione per lo sci fin da piccolo. Le prime gare le fa con il fratello, Marco, nella collinetta dietro casa in una pista improvvisata di trecento metri. Il padre vede del potenziale nei fratelli Tomba: così li iscrive entrambi allo sci club di Bologna. Alberto emerge subito. Il padre, Franco, decide di farlo seguire da Roberto Siorpaes, vecchia gloria della nazionale di sci che era in classe con lui alle superiori in Svizzera. Siorpaes abita a Cortina ed è lì che Alberto Tomba si forma.
Siamo nel 1982, Tomba è inserito nella squadra juniores della nazionale di sci italiana. Alberto è una sorta di estraneo. Le esse e le zeta di un bolognese estroverso e spaccone sono un po’ scomode a tutti. Alberto è un corpo estraneo nel mondo dello sci.
“Ero l’unico cittadino in un gruppo di ragazzi e allenatori tutti provenienti dalle regioni alpine. Non era facile sentirsi rilassati e a proprio agio”.
È l’84 l’anno in cui in Italia si inizia a parlare di Alberto Tomba. L’occasione è il “Parallelo di Natale”, 23 dicembre 1984, una gara dimostrativa organizzata a Milano sulla collina di San Siro. La Rai è in diretta nazionale. Tomba, numero 9, è al primo anno di squadra B e ha di fronte i “grandi” della squadra A. Per la serie: l’importante è partecipare. E invece – “Li mette in riga tutti” – esclama il telecronista. Il giorno dopo la Gazzetta titola: “Un Azzurro della B beffa i grandi del Parallelo”. In prima pagina non c’è il nome di Tomba. Fa ancora troppo scalpore. Nessuno è abituato ad un cognome così per le discipline sciistiche.
Non tarda ad arrivare la prima convocazione in nazionale maggiore. Dopo aver vinto tre gare in Coppa Europa, arriva il debutto in Coppa del Mondo dove incomincia a macinare i primi punti e poi anche la prima medaglia ai mondiali il bronzo di Crans Montana nel febbraio dell’87. Con l’87, Tomba conquista anche la prima impresa memorabile della sua carriera: una delle prime che lo farà diventare l’appuntamento della domenica per milioni di italiani. Il fine settimana è il 27 – 29 novembre ’87: prima tappa della Coppa del Mondo. Si gareggia in Italia. Si comincia il venerdì con lo slalom e Alberto domina con il miglior tempo e vince. Quella sera festeggia invitando tutta la combriccola di amici di Castel de’ Britti. Panini, vino, musica fino a tarda notte. Ed è proprio dopo questa notte da leoni che arriva l’impresa. Domenica 29 novembre: slalom gigante. Alberto non sta bene, ha avuto problemi intestinali per tutta la giornata precedente. In cima, al cancelletto, è sudato, stanco, spossato. All’arrivo, però, si è radunata una folla che lo incita. I cori si sentono fin lassù. Alberto vince il gigante.
Tomba agli italiani piace moltissimo. Le piste sono sempre più gremite per ammirare il suo modo di sciare, senza tensione. Ogni gara è un gioco. Alberto Tomba: buona forchetta e ottimo sciatore. Simpatico e guascone. Nello stesso anno arriva anche la prima Olimpiade, i giochi invernali di Calgary 1988. Tomba indossa il numero uno: non ha nessuno che lo precede e perciò non ha alcun tempo da prendere a riferimento. Scende e, solo dopo quando gli atleti successivi cominciano a fare tutti tempi minori, capisce che è andato veramente forte. Domina la prima manche. L’Italia ha un campione olimpico. A distanza di dodici anni dalla medaglia d’oro di Piero Gros e a sedici anni di distanza dalla medaglia d’oro di Gustavo Thoeni. Gli amici di San Lazzaro sfondano le transenne e corrono ad abbracciarlo. Nella seconda incrementa il vantaggio e vince aggiudicandosi, così, il suo primo oro olimpico. A Sanremo Miguel Bosè, dopo una grandiosa performance di Massimo Ranieri, dà l’annuncio della vittoria.
Ora è il turno dello slalom gigante. Il turno di quel 27 febbraio 1988. La “Tomba Mania” fa temere ai piani alti di via Mazzini un crollo di pubblico nel corso della finalissima del festival. E quindi, Sanremo si deve fare da parte per una decina di minuti. Tomba prepara il campo: nella prima manche andò bene ma non benissimo, arrivando terzo, staccato di sessantasei centesimi dal primo. Ai microfoni è, però, fiducioso: “Recupererò lo svantaggio”. Si delinea la gara perfetta per creare la leggenda.
Sanremo si interrompe e in pochi secondi il pubblico passa dalla riviera ligure alle distese innevate dell’Alberta. Dai fiori ai paletti di frassino piantati lungo la pista. Dai tailleur firmati ai paille sgargianti da cinepanettone. Tomba è pronto davanti al cancelletto di partenza, scatta e cerca di recuperare lo svantaggio. La seconda manche non è perfetta, ma molto più veloce della prima. Riesce ad ottenere un ottimo risultato, riesce ad essere primo e questo gli garantisce almeno il terzo posto. Si leva la maschera, gli occhi sono raggianti. Il sorriso è quello di sempre. Dopo di lui scende Nilsson, svedese, secondo posto nella prima manche. La discesa non è niente di che: è impreciso, lento e già al primo intermedio è nettamente dietro ad Albertone. Manca Frank-Christian Worndl. Tra lui e Tomba ci sono sessantasei centesimi. Non farà una brutta distesa. Supera di slancio il cancelletto. Inizia a fare le prime curve: è veloce, preciso. Ma non abbastanza. Al primo intermedio ha già bruciato più di metà di quei sessantasei secondi e una porta, un paletto dopo l’altro quei secondi si assottigliano sempre di più: venti, dieci, cinque… ma tutto questo da casa si poteva solo immaginare, cercando di capire quanto quella piccola curva troppo accentuata potesse far perdere tempo. E così fu: quando Woerndl attraversò quell’ultima linea, la linea del traguardo, i secondi erano già andati oltre il tempo di Tomba. Oltre di una decina di centesimi di secondo. Un battito di ciglia. Tanto bastò a tutta Italia per gridare al trionfo.
Sullo schermo una suggestiva sovrapposizione di immagini tra Tomba stile Rocky Balboa, braccia alzate al cielo, e il pubblico dell’Ariston che si alza in piedi e regala ad Albertone un lungo applauso. Attimi di sana pazzia. E la scaletta del festival asseconda il momento: ad esibirsi nel bel mezzo dell’apoteosi è Raffaele Riefoli, alias Raf, con “Inevitabile follia”.