Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti……….un volgo disperso repente si desta…Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti, Traluce de’ padri la fiera virtù
La finale per lo scudetto del basket ha quest’anno gli accenti manzoniani dell’Adelchi. Il volgo disperso è quello del basket italiano stravolto da una serie di avvenimenti che non ha saputo controllare: la scomparsa del mecenatismo sportivo, la globalizzazione selvaggia, la rinuncia alla governance da parte della federazione e demandata a leghe in antitesi tra di loro, il diradarsi di manager competenti e provenienti dal campo, e infine la castrazione degli allenatori. Ridotti a inerti strumenti dei loro procuratori che curano anche, guarda caso, il mercato dei giocatori e che individuano il loro “core business” nel continuo turn-over degli organici dei club, essi hanno perso la mano sul mestiere, rassegnati a fare comparsate ai margini del parquet. Il sostegno provvidenziale delle tv ha comunque compattato il seguito di spettatori presenti nei palazzetti, raccontandoci un basket immaginario e retorico che tuttavia ha funzionato nella monade sportiva locale.
Il prezzo pagato è stato carissimo: l’autoreferenzialità di un sistema che narcisisticamente guardava solo la propria immagine riflessa nel teleschermo, ha finito per escludere ormai da molti anni il basket italiano dalle grandi competizioni internazionali sia di club che di Nazionale. Il segno visibile di questo disagio lo avvertivi proprio nella qualità del gioco che si dipanava sui campi di serie A. L’atletismo e la cosiddetta velocizzazione, avevano la meglio sulla tecnica. Le forzature, le palle perse, i balbettii sui fondamentali di giocatori presunte star, infioravano un gioco sempre uguale che, inibito a giocare dentro l’area dalla scarsa padronanza tecnica dell’attacco a fronte dell’atletismo dei difensori, finiva quasi sempre con uno scarico per l’abusato tiro da 3. Per fortuna in soccorso veniva pur sempre l’efficacia di fondo di questo gioco dell’era post-industriale, capace di rallegrare il cuore semplice dei tifosi, mentre gli esteti torcevano il naso.
Ma siccome “sotto la neve il pane”, il che a volte accade anche in serie A, alcune società, silenziosamente, recuperavano “de padri la fiera virtù” che già fece primeggiare l’Italia nell’Europa cestistica. Alcune, pochissime società ritrovarono proprietari appassionati, capaci di mettersi la cera nelle orecchie, di non sentire le sirene dei procuratori e di affidare invece il governo dei loro investimenti a manager competenti, in sintonia col territorio. Manager lungimiranti nel formare team dove il cuore emotivo era dato dai giocatori italiani, manager capaci di creare una virtuosa alleanza con i coach, sollevandoli dal peso di reggere da soli le intere sorti del club e mantenendoli al comando quando il vascello andava incontro a forti burrasche , consentendo loro in tal modo di lavorare sulla tecnica, unica garanzia di un basket vincente e duraturo.
Trento e Venezia sono due club che hanno espresso questa filosofia al massimo grado consentito oggi da un sistema profondamente sbagliato. Potrà succedere che la serie di 7 partite, completamente fuori dalla realtà italiana, dove gli organici sono ridotti e non esiste aria condizionata in quei bunker claustrofobici chiamati palazzetti, il gioco non avrà la brillantezza che meriterebbe, ma il lessico tecnico di queste due formazioni è di primordine e, speriamo, valga come insegnamento al dissipato mondo delle nostre società di basket.
Valerio Bianchini