No, non si può liquidare Zlatan Ibrahimovic in un servo-verso: e per giunta in coda al traffico dell’ultima domenica di campionato. Ha ragione il gentile Marco Poli. Ibra è stato un fuoriclasse, metà Nureyev e metà Al Capone. Già le radici ne incarnano la vocazione. Di Malmoe, Svezia, figlio di padre bosniaco e madre croata, cresciuto nel ghetto di Rosengard, là dove si viveva per rubare e si rubava per vivere.
E’ stato di troppi, per restare di qualcuno. In ordine: Malmoe, Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, Milan, Paris Sg, Manchester United, Los Angeles Galaxy, ancora Milan. Deve al fiuto di Raiola una carriera che non ci ha mai lasciato neutri, freddi. A spanne, Zlatan è stato la proiezione scultorea di Van Basten, un «centro» di 1,95 (per 95 chili) che, all’alba dell’avventura, considerava il gol superfluo e tutto il resto, indispensabile. Fu Capello, chez Madama, a farglielo presente. Capì. Cambiò.
Un «nove» e un «dieci» a seconda delle esigenze e delle preferenze (sue), dall’ego che la padronanza degli strumenti ha reso strabordante. Lasciò l’Inter, dopo averla rimpinzata di gol, perché aveva voglia di Champions. Avrebbe fatto meglio a restare. Con il Pep, al Barça, non legò in nulla. Troppo lontani, come religione: il parroco officiante, Guardiola, e il diacono che si sentiva papa. Nonostante quel diavolo di Messi.
Le rughe e le cicatrici lo hanno trasformato in una sorta di totem. Fu lui, Ibra, a gettare le basi dello scudetto milanista, spalleggiando Pioli e scorticando i poveri di spirito dello spogliatoio. Atleticamente, bastano le foto. Tecnicamente, basta lui: i piedi, la testa, quei volteggi e quelle torsioni che il taekwondo gli aveva incultato e affinato.
Come ogni Achille che si rispetti, aveva il suo tallone. Un fracco di trofei Mai però la Champions; e non appena dai gironi si passava alle sfide secche, ecco investirlo una sorta di nemesi, mai o quasi mai che riuscisse a forzare il destino, forse perché sbruffone o forse perché non così ferreo, di nervi, come ci piaceva pensarlo. Ispido di carattere, drastico nei giudizi e nelle giocate. Non in Champions. Là dove le responsabilità lo aspettavano al varco e, spesso, lo facevano prigioniero.
Non una mitragliatrice alla Cristiano. Non un dribblatore come Ronaldo il fenomeno. E’ stato Il cowboy che entra nel saloon sbattendo la porta e paga da bere per tutti, se gli tira. Di stagione in stagione ha allargato i confini del regno, ha invaso la moda e i modi pur di restare alla moda, ha scritto e suggerito fior di biografie. E’ diventato un marchio restando il monello che era da ragazzo, il naso come torre di controllo e la stazza di un ciber-moschettiere, adeguato ai tempi e ai templi. Felici, noi cortigiani, di poter servire un nuovo padrone.
Ci ha regalato gol in acrobazia e di destrezza, di tacco e di stacco, di piedi e di testa (non molti), gol che stappavano emozioni o moccoli in base al tifo. Ecco: era nei calci di rigore che, d’improvviso, tornava umano, fallibile. Uno di noi. Non più il noi che avevamo sognato.
In «Il segno rosso del coraggio» Stephen Crane scrive: «Un profeta serio, quando predice un’alluvione, dovrebbe essere il primo ad arrampicarsi su un albero». Ibra ne ha predette così tante, di «alluvioni», che avrebbe avuto bisogno di una foresta. Ha scelto San Siro. Una sera di giugno. In bilico perenne tra Io e Dio come sempre gli è piaciuto millantare. Un po’ bruto, a volte, mai Bruto. Era lui, Cesare. Ibra. Nascondeva lui il pugnale.
Le lacrime di San Siro sono come la pioggia che va. E ritorna il sereno: forse.
Roberto Beccantini