Che cosa rimane il giorno dopo la partita dell’anno Djokovic-Federer? Dopo i fuochi d’artificio della memorabile semifinale di Parigi-Bercy, dopo gli applausi al grande vecchio Roger Federer, capace, a 37 anni, di scatti e tocchi da fanciullo, dopo la maratona decisa allo sprint, dopo il bagliore inatteso di fine stagione nel Masters 1000 più in crisi fra i super9? Aspettando la rivincita delle Atp Finals di Londra dell’11-18 novembre fra i migliori 8 dell’anno, sembra indispensabile regalare un gesto di solidarietà verso il vincitore. Perché lo sconfitto, il Magnifico, di complimenti ne riceve sempre – giustamente – per la sua classe sopraffina che vorremmo congelare e conservare per sempre. Ma il “povero” vincitore, quello costretto sempre e comunque a parlare dello sconfitto davanti ai microfoni, quello che deve sempre e comunque elogiare il “grande vecchio”? Diciamolo, non è facile essere Novak Djokovic.
Non è facile vincere sempre a dispetto di tutti, soprattutto in quella Parigi che ti volta le spalle al Roland Garros allo stesso modo come a Bercy, che sia sulla terra rossa all’aperto come sul veloce indoor, che il pubblico sia esperto, figlio dei club, come del popolo più sanguigno e istintivo. Non è facile, da orgoglioso eroe di una piccola-tenace-povera nazione che ha una pessima immagine nel mondo, come la Serbia. Non è facile affrontare un mito come Roger Federer, avendo tutto da perdere e ancora tutto da dimostrare a dispetto di uno storico recupero dalle stalle alle stelle che ha del miracoloso. A dispetto delle schiaccianti dimostrazione di superiorità da maggio in qua, a dispetto dei testa a testa positivi come contro tutti i finalisti Slam. Come snocciolano i cacciatori di numeri, partendo dal 10-0 consecutivo, per elencare pedissequamente, in modo impressionante: Nadal 27-25, Federer 25-22, Murray 25-11, Berdych 25-3, Wawrinka 19-5, Tsonga 16-6, Ferrer 16-5, Cilic 16-2, Del Potro 15-4, Nishikori 15-2, Raonic 9-0, Baghdatis 8-0, Anderson 7-1, Thiem 5-2. Totale 228-88 (72.2%).
Non è facile, vista dalla parte di Djokovic, veder quasi ignorati i 14 Majors vinti, i 32 Masters 1000, i 72 titoli Atp, le 22 partite di fila conquistate, lo sprint da 22 del mondo di maggio all’1 di questo lunedì, grazie a 6 finali stagionali e ai successi di Wimbledon, Cincinnati, Us Open e Shanghai. Non è facile tener duro davanti a 12 palle break che sfumano insieme alle magie al servizio, a rete, da fondocampo, dovunque, di quel diavolo di uno svizzero, davanti ai due recuperi del primo tie-break e al set point da annullare, davanti al sensazionale riflesso al volo di FedererExpress, davanti all’umanissimo e comprensibilissimo anche se colpevole gesto di stizza fracassando la racchetta sul terreno, subito fischiato dai 14mila di Bercy, davanti alla resilienza del vecchio campione che resuscita per l’ennesima volta e tiene fino al 6-6 del secondo, decisivo, tie-break.
Solo contro tutti, con la sensazione di essere comunque meno amato dei rivali diretti, malgrado a fine match regali virtualmente il suo cuore volgendosi sorridente e speranzoso di una carezza verso tutti i lati delle tribune, malgrado sia sempre pronto a scherzi e lazzi, malgrado, insomma, ce la metta sempre tutta per risultare simpatico, Djokovic, intelligente, sensibile e meritevole com’è, fa sempre il doppio se non il triplo della fatica. Ma non è certo colpa sua se è il figlio ideale del tennis moderno, il campione di gomma, il super-atleta che rimbalza di qua e di là del campo senza mai perdere l’equilibrio, soffocando a ogni nuovo scambio gli spazi, le energie e la fiducia dell’avversario. Nole è costruito apposta per essere implacabile. Così si merita tutto il rispetto, anzi, di più, ma non riesce a suscitare l’amore vero della maggioranza. Se poi delude ancora una volta il Magnifico sul viale del tramonto…
*articolo ripreso da federtennis