L’allenamento era andato bene, Dominic era appena uscito dalla doccia quando qualcuno lo aveva chiamato dall’ingresso della palestra.
“Vieni, c’è tua sorella al telefono. Dice che è urgente!”
Lui non si era neppure vestito, strani pensieri riempivano la sua testa. Aveva alzato la cornetta e aveva pronunciato solo tre parole, scacciando con la mente la risposta che in quel momento gli sembrava più ovvia.
“Che è successo?”
“Corri, mamma sta male. L’hanno ricoverata d’urgenza al Pomona Valley Medical Center. Corri Dominic!”
Era proprio quello che temeva.
Si era vestito in fretta, era saltato in macchina e aveva raggiunto l’ospedale.
Christina, detta Tina, moriva pochi minuti dopo il suo arrivo . A stroncarla era stato un infarto mentre era in casa.
Nonostante i rapidi soccorsi, le cure immediate, non ce l’aveva fatta.
Era il giorno di Capodanno del 2016.
Per due giorni Dominic, assieme ai fratelli e alla sorella, aveva vagabondato nell’appartamento di Covina nella Contea di Los Angeles dove la mamma abitava. Avevano ordinato le sue cose, cercando in quegli oggetti l’ennesimo ricordo delle ore felici passate assieme.
Nello scaffale di un ripostiglio lui aveva visto alcuni scatoloni, li aveva aperti e aveva fatto una scoperta incredibile.
Dentro c’erano un paio di guantoni da boxe, un paradenti, un paio di scarpette da calzare sul ring, una cintura dei Golden Gloves. Si era chiesto a chi appartenesse tutta quella roba, in fondo a una delle scatole aveva trovato la risposta.
Erano di Harold Lee, il padre biologico. Quello che in pratica aveva conosciuto a malapena, il primo marito di sua madre.
“Ma come, non lo sapevi?” gli aveva chiesto incredulo un vicino.
No, non lo sapeva. Nessuno glielo aveva mai detto.
Aveva solo due anni quando Harold Lee era finito in carcere. Il giorno in cui ne era uscito Dominic aveva già 15 anni. Quando era morto ne aveva 24 e giocava da quarterback nella squadra del Northern Colorado. I due si erano visti davvero poco, nessuna relazione costante, poche parole in tutto quel tempo.
L’unico vero papà, per Dominic era Terry: il nuovo compagno di Tina. Era lui che l’aveva cresciuto, che l’aveva accompagnato a scuola, al campo d’allenamento, che gli aveva insegnato a guidare la macchina.
Harold Lee era stata un buon pugile dilettante, poi aveva imboccato la strada sbagliata e la giustizia lo aveva punito.
Adesso Dominic aveva capito.
Capito perché la mamma si fosse così arrabbiata quel giorno in cui, tornato a casa nel tardo pomeriggio, le aveva detto una frase che a lui era sembrata così innocente.
“Ho accompagnato un mio amico in palestra, lì fanno pugilato. Si prendono a pugni come se non ci fosse un domani, poi quando il match è finito si abbracciano. Sono amici, amici veri. Mi piacerebbe provarci”.
“Tu non provi proprio niente! La boxe non fa per te. È meglio se continui a giocare a football o, se proprio vuoi cambiare, vai a scoprire il basket”.
Domenic era alto e grosso. Oltre due metri, con un peso che superava i 110 chili. Le mani le aveva usate fino a quel momento per lanciare l’ovale da Football Americano. Chissà come si sarebbero comportate su un ring.
Alla fine ci aveva provato, si sa: non sempre i ragazzi seguono i consigli dei genitori, anche se gli vogliono un bene dell’anima. Aveva poco più di 23 anni quando aveva messo i primi guantoni. A 26 disputava l’Olimpiade di Londra nei supermassimi, il coach era Henry Tillman. Perdeva all’esordio contro il russo Magomed Omorov, che la stagione prima aveva vinto l’oro agli Europei sconfiggendo Roberto Cammarelle.
Il primo match da professionista era datato 9 novembre 2012, successo per kot 1 contro Curtis Lee Tate. Poi la scalata verso i vertici della classifica.
Tutto questo fino al Capodanno del 2016.
La morte della mamma è un colpo impossibile da assorbire. Puoi tentare di attenuare il dolore, ma lei ti mancherà per sempre. Porterai quella vena di malinconia nel cuore, non ti abbandonerà mai. Col tempo riuscirai a convivere con l’angoscia, ti abituerai a contrastarlo. Ma avrai bisogno di mesi, anni per sopportare quel peso.
Dominic tempo non ne aveva.
Il 23 di gennaio era in programma l’incontro con Amir Mansour, una sfida che avrebbe potuto regalargli l’occasione mondiale.
Lui, quella sera, sul ring dello Steaple Center di Los Angeles ci era salito, anche se nella testa aveva mille pensieri che si davano battaglia. Incubi, speranze, ricordi, paura, dolore, angoscia. Sono i dubbi che accompagnano a volte un pugile, sono i suoi peggiori nemici.
Il record di Dominic era 16-0, 14 successi per ko.
Quello di Mansour recitava 22-1-1, 16 ko anche lui.
Il mancino del New Jersey aveva 43 anni ed era ancora uno tosto.
Vinceva il primo round, si aggiudicava anche il secondo. Ma quando arrivava all’angolo i secondi lo guardavano sconvolti.
Perdeva sangue dalla bocca, aveva la lingua quasi tagliata a metà, faticava a respirare. Avrebbe potuto farlo dal naso, ma un forte raffreddore gli rendeva difficile anche questa operazione.
Aveva uno strano paradenti, proteggeva solo la parte superiore. Chissà perché la Commissione gli aveva permesso di metterlo. Un colpo gli aveva fatto tagliare la lingua con i suoi stessi denti. E adesso era nei guai.
Continuava ad andare avanti a picchiare, a vincere un round dopo l’altro.
Dopo cinque riprese era davanti nei cartellini dei tre giudici: 50-44 per tutti. Il punto in più veniva dal knock down che aveva inflitto a Dominic nel terzo round. Stava dominando, ma proprio non ce la faceva più ad andare avanti. Era costretto ad abbandonare. Sul record di Dominic c’è scritto: vittoria per kot 5, nella realtà è stato un abbandono per infortunio.
La notte stessa Amir veniva ricoverato in ospedale, sottoposto a un’operazione che durava cinque ore e richiedeva trentasei punti di sutura per rimettere assieme la lingua.
I giornalisti a caldo, da bordo ring avevano trasmesso i loro articoli ai giornali. Raccontavano di un montante che avrebbe fratturato la mascella di Mansour e dato a Dominic la vittoria. Il giorno dopo ritrattavano e nero su bianco appariva la verità
La vittoria aveva comunque regalato al ragazzo la possibilità di battersi per il titolo. Aveva affrontato Anthony Joshua il 25 giugno del 2016 alla O2 Arena di Londra. E aveva perso per kot dopo 1:01 del settimo round. Era ed è l’unica sconfitta subita in carriera.
Questa è la storia di Dominic Breazeale detto Trouble (guaio)che sabato 18 maggio al Barclay Center, Brooklyn, New York, affronterà Deontay Wilder (40-0-1, 39 ko) per il mondiale Wbc dei pesi massimi.
Oggi Dominic ha 33 anni e un record di 20-1-0 (28 ko). È un omone di 2.01 e combatte a un peso che oscilla tra 115 e 120 chili. Un vero colosso, ma credo abbia davvero poche possibilità di farcela. La pensano allo stesso modo i bookmaker: William Hill lo offre a 5.50 (Wilder paga solo 1.14).
Breazeale non ha una mascella particolarmente resistente ai colpi. È andato più volte knock down. Non ha battuto grandi rivali, è salito sul ring contro over 40, contro avversari al rientro dopo uno, due anni.
Ma nei pesi massimi la sorpresa è sempre dietro l’angolo.
James Buster Douglas contro Mike Tyson e Oliver McCall con Lennox Lewis, tanto per restare ai tempi moderni, ne sono la chiara conferma.
Ho letto parte della storia di Dominic Breazeale su un vecchio articolo del Los Angeles Times, ho approfondito sfogliando i miei appunti, ho scavato nell’archivio a cui da anni lavoro ogni giorno, ho messo assieme il tutto ed è nato questo pezzo.
Non l’ho scritto per analizzare il mondiale Wbc del 18, ho solo voluto raccontare l’ennesima vicenda drammatica, passionale, angosciante ed esaltante di un pugile. A conferma che, come sostengo da sempre, dietro ogni uomo o donna che decida di praticare questo sport si nasconda una grande storia che merita di essere raccontata.
E Wilder?
Riporto quanto apparso su questo stesso blog qualche tempo fa.
In un’intervista al Daily Mail ha detto che potrebbe anche uccidere Breazeale.
“Non avrei un minimo rimorso. Perché questo è il pugilato, questo è quello che facciamo. Questo è ciò per cui firmiamo i contratti. La gente che è fuori dal nostro sport non capirà mai la boxe, non capirà mai cosa dobbiamo attraversare, perché dobbiamo accettare di spezzare il nostro corpo, lottare per le nostre vite sul ring. Lassù qualsiasi cosa può accadere, un colpo e può finire tutto. Parliamo di me che uccido quel ragazzo? Se succede, succede. La gente mi ama perché io parlo dei fatti, dico la verità, sono un realista e parlo delle cose così come sono. Non sto prendendo Breazeale sottogamba, lo affronterò come se fosse un campione, è così che mi sto preparando al match. Lui però in questo esperimento sarà il porcellino d’India, a me non piace esserlo. Quello che ha fatto è inaccettabile, non mi piace. Pagherà. Credetemi”.
Cosa ha fatto di così grave lo sfidante?
Sembra abbia litigato con il fratello di Deontay, che abbia offeso la sua famiglia. Sembra.
Alla morte sul ring Wilder aveva dedicato identici pensieri esattamente un anno fa.
“Non sono preoccupato di uccidere qualcuno sul ring. Quando divento Bronze Bomber (è il suo soprannome, ndr) mi trasformo. Ho una potenza devastante. Salgo sul ring con una sola cosa in testa: mettere ko il mio rivale e tornare a casa. Voglio il corpo di qualcuno, voglio un cadavere nel mio record. Non mi meraviglierei se ciò accadesse”.
Tony Bellew ha commentato: “È solo un idiota”
*articolo del 9/05/2019 ripreso da https://dartortorromeo.com/2019/05/09/cosi-breazeale-ha-scoperto-di-avere-il-pugilato-nel-sangue/