Capiva così bene il gioco, Paolo Rossi, che per lui, il sommo Brera scomodò per un paragone che sembrava stravagante nientemeno che Giuseppe Meazza, colui che con Valentino Mazzola è considerato il miglior calciatore italiano di sempre, o come minimo della prima metà del Novecento. A Meazza venne attribuita dai critici dell’epoca un’eccezionale visione del gioco, oltre alle risapute doti di goleador. Era un attaccante che, sempre secondo Brera, avrebbe potuto benissimo giocare da regista e da rifinitore, quale di fatto diventava seguendo da par suo gli sviluppi della manovra.
Negli anni in cui ho seguito la Juve, e di conseguenza anche Rossi, nessuno ha negato questa verità. Rossi era un fuoriclasse nell’intuire, con leggero anticipo rispetto agli avversati, dove sarebbe arrivata la palla o dove sarebbe stato meglio da parte sua passarla. Così nascevano i suoi gol, un tocco e via. Quelli che per chi sta seduto allo stadio o in poltrona sembrano i gol più facili. Certo, ma bisognava stare lì il quel momento preciso. La sua specialità. Un centravanti che spesso si spostava all’esterno per variare i temi offensivi e soprattutto per fare spazio a Platini, che partiva dalla tre quarti per trasformarsi in un bomber implacabile. All’inizio, la convivenza tecnica non fu semplice. Reduce dal trionfo mondiale, dalla popolarità internazionale, Rossi avrebbe voluto una squadra al suo servizio. Ma le esigenze della Juve, di un club che puntava scopertamente a dominare il calcio europeo, erano altre. C’era Bettega, con il quale Rossi si alternava con un’intesa già collaudata in nazionale, e c’era Platini che segnava più di tutti, senza essere né una prima, né una seconda punta, né tantomeno un’ala. Col passare delle settimane, Rossi decise di adattarsi. E la Juve cominciò il decollo. Dopo la Juve, prima di chiudere con il football è stato anche al Milan. Qualche guizzo dei suoi, ma non era più lui. Bearzot lo portò per riconoscenza in Messico, per il terzo mondiale. Lui meditava di ritirarsi.
Nel giorno della morte dell’eroe del Sarrià, il piccolo stadio dell’Espanyol, la folla di ricordi è tale da sovrapporsi quasi alla figura di Rossi. Nessuno ricorda dov’era quando Rossi fu coinvolto, per sua ingenuità, nello scandalo delle scommesse clandestine. Ma tutti sanno e ricordano esattamente che cosa facevano nel tardo pomeriggio del 5 luglio, quando il centravanti azzurro cavò dal suo repertorio tre gol diversi tra loro e rispedì a casa il favoritissimo Brasile. Sono quegli attimi che cambiano il destino di un popolo e di un Paese come l’Italia, appena uscita dagli anni di piombo, dalle stragi impunite, da un periodo buio. Il calcio e i gol di Rossi contribuirono a moltiplicare la fiducia, diventare campioni del mondo fu un’iniezione di autostima, come si dice oggi. Per tutti, da Nord a Sud, isole comprese.
A pochi giorni dall’addio di Diego Armando Maradona, il calcio ha perduto un’altra icona. Non tutti sanno che quel soprannome – Pablito, il piccolo Paolo – gli fu dato durante il mondiale di Argentina, nel quale Rossi giocò anche meglio rispetto all’82, ma l’Italia si fermò sul più bello, quando sembrava avviata verso la finale, dopo aver battuto nel girone l’Argentina con un formidabile uno-due tra Bettega e Rossi, con il gol di Bettega che fece ammutolire il Monumental, il tempio del River Plate. E chi inventò Pablito? Un grande giornalista veneziano, innamorato del Rossi del Vicenza – a sua volta ribattezzato come Real Vicenza – allenato da Giovanni Battista Fabbri, inviato al seguito della nazionale in Sudamerica. Era Giorgio Lago, scomparso nel 2005, dopo aver girato il mondo per lo sport ed essere stato direttore del “Gazzettino”.
*foto ripresa da https://tuttocalcio360.altervista.org