Ma che atletica vogliamo? Gridiamo e strepitiamo contro il doping e quando la pista ci offre spettacoli di umana sofferenza siamo delusi, diciamo che non era più come una volta, che i campioni che cadono sono forse mezzi campioni. Una settimana di Mondiali di Londra ci ha offerto un quadro nuovo, niente affatto deludente, anzi… Per chi ama e conosce questa disciplina lo stupore non arriva grazie ad un numero, ad un primato che può nascondere fra le sue pieghe procedure inconfessabili, ma da coraggio, dalla capacità di sognare di un ragazzo capace di sfidare i suoi limiti e la fama degli avversari.
Sono state esaltanti le vittorie del francese Bosse sugli 800 metri in un “modesto” 1’44”67. Pareva un tentativo di suicidio il suo attacco a 250 metri dal traguardo ed invece così ha sorpreso l’Africa intera ed il resto del mondo. Ha attaccato, è andato davanti ed ha saputo resistere. Come al limite dell’incredibile è stata la vittoria del norvegese Warholm nei 400 hs (48”35) che non ha subito il timore riverenziale per gli statunitensi, si è scrollato di dosso i complessi degli europei troppo piccoli e brutti ed è andato a dominare a testa alta. Crono normali si diceva un tempo, ma forse è con questa nuova “taratura” che dovremo far i conti in un futuro che speriamo più pulito.
Torniamo ad emozionarci per queste lotte se non vogliamo condannare a morte l’atletica. Mostrano il meglio dell’uomo, non le sue scappatoie. Basta ipocrisia.
Bentornata stanchezza. Da troppo tempo non la vedevamo, cancellata da troppi Big Jim capaci di regalare “numeri” che andavano contro la fisiologia umana. E’ stato brutto vedere Wayde Van Nierkerk crollare sul traguardo della finale dei 200 metri? No, è stato umano. Così come il suo grande avversario, Isaac Makwala del Botwana, solo quinto nella stessa finale. Non ce la facevano più. E c’è chi ha criticato il sudafricano perché mercoledì nella finale dei 400 metri non è diventato il primo uomo nella storia ad abbattere il muro dei 43 secondi sul giro di pista. Troppo sparagnino nel finale è stata l’accusa, uno schiaffo allo spettacolo. Ma quegli ultimi 50 metri per il povero Wayde sono stati una parete di sesto grado. Bisognava capirlo.
Certo è che in fatto di ipocrisia anche la federazione internazionale non ha scherzato, confezionando un programma che prevedeva il primo turno dei 200 metri fra semifinale e finale dei 400 metri. Chi conosce le due distanze sa che i meccanismi sono diversi, che c’è un cambio di ritmo violento che non può attivare con un interruttore e soprattutto due volte nel giro di 48 ore. E pensare che questa pensata voleva “aiutare” chi inseguiva il sogno di dominare le due distanze. Certo che era possibile, ma è meglio non pensare a “come”.
La prova? Il crollo di Van Nierkerk negli ultimi metri della finale dei 200 aveva avuto un antipasto sintomatico il giorno prima nelle finali dei 400 femminili, quando si sono viste fuoriclasse come la bahamense Shaune Miller e la statunitense Allison Felix piantarsi come alberi di banane sulla retta d’arrivo.
La lotta al doping è tutt’altro che conclusa, ma i sintomi dei Mondiali di Londra ci stanno dicendo che siamo sulla buona strada. Non si vincerà mai, ma già la paura di controlli veri può fare miracoli.
Pierangelo Molinaro