Alzi la mano chi, guardando in tv la finale degli Us Open (magari fuorviato dalla telecronaca) o avendo la fortuna di essere presente nella tribuna del gigantesco Arthur Ashe Stadium da 23mila posti, non s’è stupito, domenica, nei primi 38 minuti della finale già scritta degli Us Open Nadal-Anderson. Il numero 1 della classifica mondiale, lo strafavorito per il terzo trionfo agli Us Open e per lo Slam numero 16 – il secondo di un’altra straordinaria stagione di successi -, Rafa Nadal che non ha bisogno di presentazioni e mette paura a qualsiasi avversario già con la sola presenza, all’idea dell’impegno e della fatica che occorre per domare un simile guerriero. Lui, proprio lui, il portentoso mancino di Maiorca dal top spin che schiaccia chiunque, che ha superato talmente tante volte oltre i propri limiti, che ha sconfitto tutte le superficie, tutti i preconcetti e tutti i rivali, che ha domato infortuni imbattibili per i comuni mortali, che richiama Tiger Woods al suo angolo in tribuna (alla disperata ricerca dello spirito vincente smarrito), che torna a minacciare il mito Roger Federer, primatista Slam a quota 19. Lui, sì, lui, l’uomo forte del tennis che rialza imperiosamente la testa e che vola letteralmente vola questo Slam come ha volato il Roland Garros, si è messo stabilmente tre metri dietro la riga di fondo a rispondere non solo alla prima, ma anche alla seconda di servizio del Carneade Kevin Anderson, mai arrivato così avanti in un Major ed appena numero 32 del mondo.
Quanti hanno davvero capito che quei 38 minuti iniziali sono stati la sublimazione degli insegnamenti di zio Toni (che lo assiste per l’ultimo Slam in tribuna prima di dedicarsi alla Scuola di Manacor), marchiando il match, smontando, svilendo, annacquando l’arma principale del giocatore-sorpresa del torneo? Di più: così facendo, Rafa ha dimostrato ancora una volta di non essere solo il numero 1 del tennis, ma il campione ideale, l’esempio per tutti, l’idolo vero per chi si vuole impegnare in qualsiasi impresa, quello che, come base di partenza, mette in gioco l’umiltà. E’ la parola-chiave che zio Toni ha inculcato al suo Rafael, svestendolo da subito dai panni di un possibile ragazzo viziato, figlio del fratello Sebastian, ricco imprenditore di Maiorca ed allevandolo, intanto, ai valori della vita. Umiltà vuol dire rispetto di tutti, umiltà vuol dire evitarsi sorprese, con tutte le aspettative che potevano soffocare il super-favorito, arrivato così facilmente sotto il traguardo, umiltà vuol dire tener fede ai propri principi, a prescindere da chi hai attorno e da come si comporta, umiltà vuol dire seguire un piano fino alla fine, accettando ogni volta un nuovo schiaffo ma insistendo tenace nelle proprie convinzioni.
Per tradurre questa parola in inglese, come altre parole in un lingua che ha imparato sulla strada del tennis – con l’aiuto soprattutto del fido Benito Barbadillo -, Rafa ci ha messo un po’. Non voleva dire soltanto umiltà (“umilty”), parola così vicina al suo spagnolo ma che resta lì, fine a se stessa, lui voleva dire: essere umili, “to be humble”. Perché lui ha fatto davvero sua quella parola tanto difficile che ha imparato da zio Toni, la urla ogni giorno della vita, la vive, la respira, la traduce nel tennis, a costo di restarsene in trincea a sfoderare un servizio e un rovescio che s’è costruito con uno straordinario lavoro, finché non è sicuro che il bazooka- Anderson fa ormai Plop, e può buttarsi a rete, sfoderando anche un servizio-volée invidiabile.
Impostando così la partita, Rafa si è confermato Rafa, non ha deragliato da se stesso e dal suo credo, dall’umiltà che significa ostinazione, pazienza, orgoglio, forza, e tante altre qualità irresistibili. Trattando il pivot sudafricano come tutti gli altri avversari che lavora ai fianchi proprio sul loro colpo più forte, fino a vincerli, di testa, di tecnica, di fisico. Epperciò, onore al campione uomo Rafa Nadal che merita tutto quello che conquista. Quello che saluta sempre per primo quando incroci qualcuno che conosce, ma anche quando semplicemente arriva in un posto – per educazione -, quello che si arrabbia solo se uno contesta il suo credo: “In una finale non ci sono favoriti, bisogna sempre giocarla la partita, è quella che decide il risultato”. Grazie anche di quest’ultima lezione.
Vincenzo Martucci