L'ennesima delusione in Champions league non giustifica il cambio dell'allenatore, condizionato dalla raffica di infortuni (a cominciare da Dybala) e da troppi errori individuali – Per Agnelli è il momento più delicato: non si risolvono i problemi con scelte umorali – Da rivedere anche l'organizzazione dell'area tecnica del club
E’ risaputo che il calcio sia il regno dei paradossi. Senza un fuoriclasse indiscutibile come Cristiano Ronaldo – dileggiato a sproposito in queste ore dagli stessi che lo avevano collocato al di sopra di tutti i più grandi campioni – la Juve aveva raggiunto due finali, una delle quali perduta proprio contro di lui a Cardiff. Con lui, viceversa, tre eliminazioni consecutive: ai quarti di finale contro il giovanissimo Ajax, addirittura agli ottavi contro il Lione (prima squadra francese ad aver superato i bianconeri in più di mezzo secolo) ed il Porto. Curiosamente, al momento del sorteggio, l’esultanza dei media era sembrata eccessiva, ma tant’è. Inutile negare che la delusione sia stata fortissima, soprattutto l’ultima: all’andata, tra un retropassaggio folle e altre sviste, una sconfitta evitabile; al ritorno, tra errori ed omissioni, una vittoria inutile, nonostante l’inferiorità numerica dei portoghesi per più di un’ora, tempi supplementari compresi.
Che cosa può accadere? Pirlo e Ronaldo sono i primi nodi da sciogliere. Lo dico subito: io li terrei tutti e due, ma se Ronaldo volesse andar via in cerca di nuovi stimoli non lo tratterrei. Ma chi è disposto a dargli i sessanta milioni di euro all’anno del contratto che scade nel 2022? Ricordo sommessamente, avendo seguito la Juve a lungo da cronista, che al ritorno da Atene c’erano tifosi e qualche critico che suggerivano a Boniperti di cedere subito i merceenari. Così chiamavano, in nome di una italianità almeno discutibile, Platini e Boniek, due degli stranieri più forti che abbiano mai giocato in Italia. Benché amareggiato, Boniperti non si lasciò suggestionare dall’idea di smantellare tutto. Gli umori popolari non dovrebbero condizionare le scelte di un club, né di un governo. Parentesi chiusa.
Soprattutto, terrei Pirlo: cambiare ancora allenatore – sarebbe il quarto in quattro stagioni – adesso che ha fatto apprendistato non avrebbe molto senso. In qualche occasione, il calcio che ha in mente Pirlo si è anche visto, ed era un calcio propositivo, votato all’attacco, in linea con la tendenza dei migliori club del continente. Si è visto poche volte, ed anche questo è innegabile. Ma ci sono attenuanti robuste: la mancata preparazione estiva, dovuta allo schiacciamento del calendario per via del maledetto covid, la valanga di infortuni e di indisponibilità di molti giocatori (Dybala ha giocato pochissimo), il recupero affrettato di altri. Ecco perché martedì, nella notte della fine del sogno Champions, la squadra non avrebbe potuto comunque presentarsi con una condizione migliore. Avrebbe potuto superare il turno con più accortezza, ma sarebbe stata una piccola Juve.
A Pirlo andrà consegnata una squadra ritoccata e rinfrescata. Il centrocampo va rifondato: ho letto di un grande Arthur contro il Porto, ma a parer mia è stato solo sufficiente, anche tenendo conto che arrivava da un periodo di inattività. Il suo è un calcio orizzontale, ha doti tecniche notevoli, ma è adatto per chi vuol giocare corto, in pochi metri. Come il Barcellona che difatti lo acquistò. Arthur verticalizza poco, preferisce smistare la palla lateralmente, non ha la visione profonda di un Pirlo (giocatorre, ovviamente). Al suo cospetto, il regista del Porto, Sergio Oliveira è sembrato un gigante: abile nel palleggio, molto dinamico, buon tiratore, svelto nel cercare subito gli attaccanti senza passare necessariamente dagli esterni. Aggiungo che tra il miglior Arthur e il migliore Pjanic, sceglierei sempre il bosniaco.
La Juve ha effettuato sessanta cross (sessanta davvero, lo dicono le statistiche del match) verso l’area, dei quali trentadue ad opera di Cuadrado. Ma Cuadrado non era in forma smagliante, faticava ad arrivare fino a fondo campo, la maggior parte dei suoi cross veniva indirizzata dalla trequarti con l’effetto di esaltare la bravura e l’esperienza di un vecchio, forte difensore come Pepe.
Accanto ad Arthur c’erano, nella linea di centrocampo, Ramsey, Rabiot e Chiesa. Stabilito che Chiesa è stato il protagonista della serata, il gallese ha confermato di non gradire la posizione laterale, è un centrale incursore, non è un’ala. Si è dovuto adattare, ha combinato poco. Rabiot ha buone qualità, ma poco senso tattico. Sta migliorando, Pirlo gli ha dato fiducia, ma è un centrocampista che possa giocare da titolare in una Juve ancora più ambiziosa? La risposta è no. Però, ha un contratto quinquennale da sette milioni e mezzo netti a stagione. Sarà con tutta probabilità ceduto, ma le sue quotazioni sono calate.
Insomma, servono altri giocatori. Si sussurrano i nomi di Locatelli e Milinkovic-Savic, non più di Pogba, che ha pretese insostenibili. Comunque, serviranno grandi investimenti. Con un centrocampo niovo, e con qualche altro ritocco, Pirlo potrà dimostrare il proprio valore in panchina. A suo favore, en passant, c’è il rilancio di Danilo, una delle rivelazioni di quest’annata, terzino, stopper e persino mediano.
Agnelli guarda al futuro, alla Superlega, ad un calcio meno domestico e più internazionale. Legittimo. Inaccettabile, e i giornali inglesi lo ripetono spesso, che si voglia costruire il futuro concedendo ai grandi club una sorta di diritto divino di partecipazione alla Champions, mettendo in secondo piano gli esiti del campo. Detto da un presidente che rifiuta le sentenze della giustizia sportiva ed esibisce non trentasei, ma tutti i trentotto scudetti conquistati, appunto, sul campo.
E’ probabile che l’organizzazione dell’area tecnica della Juve vada rivista. A cominciare da Paratici, che pensa sempre a Icardi da scambiare con Dybala: sarebbe un affare per la Juve? Lo stesso Paratici ha sacrificato giovani molto promettenti come Coman e Kean per finanziare altre operazioni, che hanno portato i benefici desiderati.