“Sono il Forrest Gump del basket” si racconta nell’articolo. Pubblicato qualche giorno fa, quando probabilmente nessuno pensava che la corsa degli Houston Rockets nei playoff sarebbe finita così, con una sconfitta in casa di 30 punti contro i San Antonio Spurs privi della loro stella, Kawhi Leonard, e di Tony Parker, infortunati. E a fronte della peggior partita della storia di James Harden, probabile Mvp della stagione, l’uomo sul quale D’Antoni ha costruito le fortune e il gioco della sua squadra, improvvisamente apparso svuotato e impaurito. E adesso si ricomincerà a dire che la pallacanestro di Mike è bella ma non vincente, massacrato dalle ali-pivot, LaMarcus Aldridge e Pau Gasol, che lui disdegna. Una lunga storia.
E’ per questo che, in tutti questi anni, Laurel ha combattuto affinché si rendesse il giusto merito al lavoro del marito con la sua carica inesauribile, la brillantezza del suo sorriso e del suo carattere, l’inequivocabile evidenza che non ci sia un argomento, anche cestistico, col quale non si debbano fare i conti con lei. Perché solo lei sa davvero quale sia l’impegno, la dedizione, la passione, lo stress col quale Mike ha vissuto la sua carriera di allenatore, incapace di dormire la notte o leggere un libro durante la stagione per l’impossibilità di concentrarsi su qualcosa che non fosse la sua squadra. Visto da fuori, D’Antoni è il contrario. Un allenatore amichevole che, come molti ex giocatori, adotta un basket leggero, basato sul talento e al libero arbitrio dei singoli, ad alto ritmo per rendere più appagati e felici i giocatori, senza troppi concetti difensivi. Pensate a Zeman? Come carattere, poi, Mike ha un difetto enorme per un allenatore: l’intelligenza dell’autoironia. E in un mondo nel quale bisogna apparire degli Special One per avere successo, la sua amabilità, la capacità di prendersi in giro anche in momenti molto critici, di raccontare aneddoti poco eroici della sua professione è stata spesso interpretata come una debolezza.
E allora, a quel punto, arriva sempre Laurel, carica come un leone ferito, a ricordare che suo marito non è quel sempliciotto del West Virginia che vuole apparire, che la sua Phoenix ha fatto la storia rivoluzionando il gioco, che a New York ha ricostruito i Knicks portandoli, senza stelle, dal gradino più basso ai playoff e che anche i Lakers, uno volta cambiato allenatore, sono andati solo peggio. Ma probabilmente tutto questo non era sufficiente per convincere il mondo che la sua pallacanestro, che sicuramente può piacere o meno, perché costruita sull’alto numero di possessi e il tiro da tre punti diventato opzione primaria e preso anche in contropiede, fosse vincente oltre che spettacolare. C’è voluto Steve Kerr, che di Mike era g.m. a Phoenix, dopo il titolo vinto con Golden State, a dare credito a D’Antoni come ispiratore della pallacanestro dei Warriors. Quando uno conta solo le vittorie rischia di dimenticare cose importanti: nel 1993 l’infortunio di Antonio Davis a poche ore dai playoff e senza la possibilità di sostituirlo, quando Milano, fresca vincitrice di coppa Korac, letteralmente volava; nel 1995 quando Treviso arrivò alla finale scudetto e si fece male Naumoski. Oppure, la semifinale dell’Ovest 2007, in gara 4 contro i San Antonio Spurs: dopo un fallaccio di Robert Horry su Nash, si ritrovò nella sfida successiva senza Stoudemire e Diaw, squalificati per essersi alzati dalla panchina (Duncan e Bowen fecero lo stesso e non furono sanzionati). Si potrebbe continuare, finendo alla stagione coi Lakers nella quale Kobe Bryant giocò solo 6 partite… Ma il problema più grosso è stato chi non credeva davvero che il suo basket potesse anche essere vincente. Così, a Phoenix, la proprietà gli impose Shaquille O’Neal, il peggior giocatore per interpretare la sua pallacanestro (più o meno come Darryl Dawkins a Milano…) mentre New York distrusse il suo lavoro quando ci fu la trade che portò Carmelo Anthony ai Knicks. Non tutto è stato facile.
Ma quando, lasciata Los Angeles, sembrava in un momento ormai calante nella professione, ha finalmente trovato il posto perfetto per lui: il proprietario dei Rockets lo aveva sempre ammirato, il manager, agendo sul mercato, gli ha costruito attorno una macchina perfetta per la sua pallacanestro. Mike ha subito spostato in regia James Harden, perché avesse il totale controllo della situazione. E tutto è andato perfettamente bene fino al supplementare di gara-5 contro gli Spurs, dove i Rockets non sono riusciti a portare a casa la vittoria contro un’avversaria che aveva appena perso Leonard per una distorsione alla caviglia. Anche Harden, visto come ha giocato gara-6, deve aver sentito che, da quel momento, tutto era perduto: i treni per eliminare gli Spurs passano poche volte nella vita.
L’articolo di Espn è divertente anche se, essendo americani, è quasi impossibile che scrivano cose corrette sugli anni italiani di Mike. Ad esempio, indicano il 1996 a Treviso come momento della nascita della sua pallacanestro rivoluzionaria quando invece avvenne nella stagione 1992-93, a Milano, dopo 6 sconfitte consecutive, quando tolse un lungo per aggiungere un tiratore al quintetto. C’è da dire, che per il successo dell’operazione, fu indispensabile l’esplosione di Sasha Djordjevic che aveva attraversato un momento deludente. La cosa divertente, ricorda Mike, è che quando andò ad allenare negli Stati Uniti, pensavano che il suo basket fosse all’europea, senza sapere che da noi era stato un identico shock tecnico, tanto da pensare che solo un allenatore americano l’avrebbe concepito.
I siparietti tra Mike, distaccato, che fa l’ultimo spuntino mentre si distrae con le parole crociate un’ora prima della partita lanciando occhiate a Laurel che parla col giornalista, sono fantastici. Andate a leggere il pezzo su Espn.com. Riprendo solo due momenti che descrivono perfettamente l’atmosfera. Il primo, quando a Los Angeles, Laurel scoprì che ai giornalisti potevano entrare nelle zone riservate alle famiglie dei giocatori nei post partita, andò dal g.m. Mitch Kupchak e gli disse: “E’ bello che i media possano entrare qui, ma giusto perché tu lo sappia, io parlo”. Quante volte, anche nei suoi anni italiani, per sapere davvero cosa stesse passando Mike è stato necessario che lo dicesse Laurel? L’altra, illuminante, riguarda l’addio a New York. Racconta Mike: “Quando Carmelo Anthony ha detto alla società di scegliere tra lui e me, ho lasciato la squadra”. “Non dire lasciato, è una parola che odio – lo incalza Laurel -. Hai dato le dimissioni, avete mutualmente deciso di terminare il rapporto”. Mike, roteando un po’ gli occhi e guardando il giornalista: “Ho lasciato”. Fantastico. Fantastici. Ma dopo questa eliminazione, toccherà ancora una volta a Laurel scendere in campo per difendere Mike, anche se James Harden si è completamente assunto la responsabilità della sconfitta. Leggete l’articolo di Espn e guardate la foto: quanto sono belli?
Luca Chiabotti