Gli ultimi giorni dei Mondiali di atletica a Doha, con una serie di brillanti prestazioni, hanno fatto passare in secondo piano l’argomento doping, in particolare la scandalosa assoluzione del velocista statunitense Christian Coleman dall’accusa di aver saltato per tre volte in un anno i controlli antidoping. In base alle regole, questa infrazione corrisponde a una positività al doping, tanto da richiedere una lunga squalifica, di almeno due anni nel caso di Coleman. Una incredibile serie di sofismi legali, invocata dai suoi legali e accettata da Usada (agenzia antidoping degli Usa) e Wada (agenzia mondiale antidoping), gli ha invece permesso di essere prosciolto dalle accuse, di gareggiare a Doha e di vincere due ori, nei 100 metri e nella staffetta 4×100. Gli stessi mezzi di informazione hanno faticato molto per spiegare come si è arrivati a questa assoluzione, tanto intricata è stata la motivazione che Usada e Wada hanno usato per dire che i controlli saltati erano soltanto due, che il primo dei tre doveva essere retrodatato e che quindi veniva considerato “al di fuori” dei 365 giorni previsti dal regolamento antidoping.
In questo caso, non c’è stata omertà da parte dei mezzi di informazione, ma semplicemente la difficoltà a comprendere cosa è successo. La realtà, purtroppo, è che è fuorviante parlare solo di uso scientifico del doping “medico”, che fa riferimento a sostanze proibite, ma bisogna introdurre, e non da oggi, il concetto di uso scientifico del doping “legale”. Se il primo viene attribuito a Paesi come la Russia, nazione esclusa da Olimpiadi estive e invernali e dai Mondiali come quello di atletica, o alla Cina, il secondo è caratteristico di Paesi come soprattutto gli Stati Uniti (ma anche molti altri occidentali, inclusa l’Australia), che non incontrano una assoluta resistenza da parte della Wada.
IL TEMPO DI EINSTEIN
Il tempo è relativo, non assoluto, con l’avvento di Einstein e della sua teoria della relatività ristretta si deve prendere atto che il tempo dipende dalla velocità con cui ci si muove (famoso l’esempio dei due gemelli, uno dei quali viaggia nello spazio alla velocità della luce mentre l’altro rimane a terra, dopo 20 anni quello a terra ne ha 8 di più di quello che torna dallo spazio). Il caso dei tre controlli saltati da Coleman apre una nuova era anche per le teorie di Einstein perché fa cambiare il tempo già passato. Ecco come, grazie all’aiuto di esperti che hanno dato la migliore interpretazione possibile del ginepraio legale escogitato dalla difesa di Coleman, potrebbe essere spiegata la sua assoluzione.
I fatti. L’anno è diviso ufficialmente in quattro trimestri per i controlli antidoping. Gli atleti devono comunicare entro il primo giorno di ogni trimestre dove saranno in questo periodo, compilando il “Whereabouts information form”. Per maggior chiarezza, ecco come Wikipedia ne spiega il funzionamento: “Il documento deve essere presentato trimestralmente indicando per ogni giorno del calendario le località di allenamento, gli orari e il luogo nel quale l’atleta soggiorna regolarmente. L’atleta è obbligato ad indicare un periodo di 60 minuti ogni giorno durante i quali potrà essere sottoposto al test anti-doping”. Va aggiunto che, nel caso di spostamenti non prevedibili, l’atleta deve comunicare il cambiamento del luogo in cui si trova entro un’ora prima dei 60 minuti di reperibilità.
Vediamo cosa è successo con Coleman. Non è stato trovato al controllo antidoping il 6 giugno 2018, il 16 gennaio 2019 e il 26 aprile 2019. I suoi avvocati, però, hanno sostenuto la tesi secondo la quale il primo test mancato doveva essere datato all’1 aprile, primo giorno del trimestre considerato dal whereabout. Il motivo di questa richiesta lo vedremo fra un po’. Fatto sta che, spostando la data del primo mancato controllo all’1 aprile 2018, ne consegue che il mancato controllo del 26 aprile 2019 si verifica più di un anno dopo il primo. Ma viene fuori automaticamente una domanda: se bisogna considerare il primo giorno del trimestre come riferimento per il conteggio dei giorni dei controlli, anche se il primo test mancato avviene in un giorno qualsiasi del primo trimestre, perché non succede lo stesso per l’ultimo trimestre? Quindi, se gli avvocati di Coleman sostengono che per il primo mancato controllo bisogna spostare la data all’1 aprile 2018, secondo lo stesso principio si dovrà spostare all’1 aprile, del 2019, anche la data del terzo mancato controllo, quindi Coleman rientrerebbe nell’anno previsto dai regolamenti come tempo in cui tre mancati test provocano la squalifica. Ma questo non avviene nel caso di Coleman. Perché?
E qui torniamo alla motivazione del primo mancato controllo. Gli avvocati hanno sostenuto che gli ispettori antidoping non hanno trovato Coleman perché lui aveva sbagliato a compilare il modulo del whereabout, così che il salto del test non era da considerare come “assenza”, ma come “mancata registrazione”. L’assenza viene attribuita all’atleta nel giorno in cui si verifica, in questo caso il 6 giugno 2018, la mancata registrazione non può che essere attribuita al primo giorno del trimestre, quando l’atleta consegna il modulo compilato in maniera sbagliata, quindi all’1 aprile 2018. La Usada, quando ha preso atto di questa contestazione da parte degli avvocati di Coleman, ha chiesto un parere alla Wada e la risposta è stata che Coleman aveva ragione. A Coleman, quindi, è stata riconosciuta la colpevolezza di una mancata registrazione, non quella di una assenza nel primo controllo mancato, così l’1 aprile 2019 è scaduto l’anno da considerare come limite per gli eventuali tre test mancati e quello del 26 aprile 2019 è risultato “fuori” dal periodo incriminato. E Coleman è stato assolto.
ALLUCINAZIONI E VERGOGNE
Se a questo punto vi gira la testa e pensate di avere le allucinazioni non preoccupatevi, non state male voi, sta male la giustizia sportiva, ma soprattutto sta male la Wada che si è accorta di aver creato un sistema con buchi enormi come il Grand Canyon a disposizione di chi ne vuole approfittare. Se è possibile fare una distinzione fra assenza e mancata registrazione, allora è possibile tutto, perché si possono spostare le date a proprio piacimento, fare tutti i tira e molla possibili e trovare anche nuove crepe nel regolamento per poter continuare a doparsi impunemente. Giusto un piccolo esempio: la registrazione è con l’orario GMT, quello del meridiano di Greenwich, quindi quello dell’Inghilterra, e considerato che l’atleta può cambiare la reperibilità fino a un’ora prima di quella comunicata si allargano gli spazi temporali per interventi dell’ultimo minuto per ripulirsi o altro. Non è una sorpresa che la Wada abbia rinunciato a fare ricorso contro l’assoluzione di Coleman, visto che si è resa conto di quale pastrocchio si sia resa essa stessa responsabile, tanto che adesso, proprio dopo il caso Coleman, si parla di una revisione delle norme. Fra l’altro, si discute di ridurre da tre a due il limite per i mancati controlli nell’arco di un anno. Fosse stata già in atto questa regola, Coleman sarebbe stato squalificato per due anni, avrebbe saltato i Mondiali di Doha e l’Olimpiade di Tokyo 2020. Invece, eccolo qua campione del mondo sui 100 e in staffetta, misteriosamente assente sui 200, cui era iscritto a Doha (ha detto di essere stanco, dopo una batteria sui 100 fatta passeggiando e solo due gare vere in semifinale e finale), e pronto a prendere medaglie olimpiche. A meno che prima non cambino le regole.
Ma non è nemmeno questo il lato peggiore della situazione. Ciò che è davvero grave è l’impunità che sembra essere garantita dal denaro. Solo chi può permettersi tanti soldi, l’atleta singolo o la sua Federazione, e quindi di pagare studi legali di altissimo livello, ha il vantaggio di combattere una battaglia già vinta contro chi commette errori grossolani, come la Wada in questo caso. E le autorità, poco autorevoli, dell’antidoping non riescono a fare altro che sfogarsi contro chi questi mezzi non li ha. Che la Russia abbia commesso evidenti nefandezze è innegabile, che subisca conseguenze disciplinari è giusto, ma se si puniscono, a crescere, i ladri di polli, i rapinatori di banche, le bande criminali, non ci si può fermare quando si arriva ai maghi della finanza che rubano miliardi. Eppure è proprio quello che è successo in varie fasi della storia dello sport e in particolare delle Olimpiadi con gli Usa protagonisti in negativo e puniti solo rare volte, nonostante prove concrete dell’assunzione di doping o, peggio ancora, di assoluzioni in casi conclamati, di autorizzazioni speciali per presunte malattie o addirittura di positività tenute nascoste. L’elenco è lunghissimo e comprende campioni conclamati in vari sport, purtroppo è destinato ad allungarsi visto cosa succede tuttora.
SALAZAR, COACH SACRIFICABILE
E la squalifica di Alberto Salazar, capo allenatore del Nike Oregon Project, giunta proprio durante i Mondiali di Doha, a dispetto della sua pesantezza, quattro anni, non dà la sicurezza di una mano dura contro chi usa il doping. Sembra quasi che la Usada abbia voluto mettere una pezza sullo scandalo Coleman, ma non funziona così. I dubbi diventano più grandi, paradossalmente, proprio a causa delle dichiarazioni degli atleti coinvolti in quel progetto, vincitori di medaglie a Doha, che sostengono tesi improponibili. L’atleta che ha causato maggiori sospetti è la naturalizzata olandese SifanHassan, oro nei 1500 e 10.000, una doppietta mai realizzata nella storia dell’atletica. Hassan ha vinto le due gare dimostrando una superiorità imbarazzante, in particolare nei 1500 metri, vinti con grande distacco. Avrebbe potuto correre anche i 5000, in programma pochi minuti dopo, avrebbe vinto anche quelli! La sua dichiarazione, quando è stata ufficializzata la squalifica di Salazar, appare incredibile: “Faccio notare che questa indagine riguarda un periodo precedente a quello in cui sono entrata nel Progetto Oregon e quindi non riguarda me. Sapevo dell’investigazione quando ho scelto il Progetto Oregon, ho sempre avuto la coscienza pulita, sapevo che saremmo stati monitorati costantemente da Usada e Wada”.
E allora, andando sul concreto: Hassan sa benissimo, lo dice lei stessa, delle indagini su Salazar quando sceglie di far parte di un progetto guidato da lui, ma sostiene che questo riguarda un periodo precedente. Quindi, io so che qualcuno sta investigando su un allenatore perché sospettato di favorire il doping e vado a scegliere proprio quell’allenatore, ma mi giustifico dicendo che lui è indagato per cose avvenute “prima”. La Hassan, perciò, pensa che a partire dal suo arrivo in quel progetto, non ci siano più motivi di sospettare di Salazar? Si è convertito proprio in quel momento? Ma davvero la Hassan crede che questa sia una spiegazione plausibile? E quali sono i suoi rapporti con Salazar? Di certo, lei stessa ammette di aver parlato con lui prima della gara dei 1500, ricevendo incoraggiamento a tentare il record in questa gara, ma senza parlare di indicazioni tecniche. Ci manca solo che la Hassan dica di ricevere i regali da Babbo Natale dopo avergli scritto la letterina e poi siamo al completo. A evitare ipocrisie c’è la britannica Laura Muir, quinta nei 1500, che a proposito della Hassan e di Salazar dice: “Date le notizie degli ultimi due giorni, penso che ci sia una nuvola nera che aleggia sul risultato. Non è possibile evitarlo. Ma tutto ciò che puoi fare è concentrarti sulle tue gare”.
Se la Hassan se ne viene fuori con un candore da Cappuccetto rosso, c’è chi riesce persino a superarla con una faccia da paragnosta, come lo statunitense DonavanBrazier, che vince gli 800 metri, si allena nel Progetto Oregon e dice di non avere assolutamente idea delle accuse a Salazar! Il giorno in cui il tecnico è stato squalificato, Brazier ha dichiarato che nemmeno sapeva che l’Usada aveva accusato Salazar di aver violato le norme antidoping e che il Progetto Oregon era sotto inchiesta. Magari non lo hanno nemmeno informato che da quasi tre anni Donald Trump è il presidente degli Stati Uniti!
E c’è anche chi scappa, come Clayton Murphy, altro statunitense in gara negli 800, che è sulla stessa linea della Hassan: “Tutto ciò che è accaduto ad Alberto, tutte le accuse e gli eventi di cui è accusato sono successiprima che facessi parte del gruppo”. E quando i giornalisti gli fanno altre domande Murphy va via senza rispondere.
Si chiude con una tedesca, Kostanze Klosterhalfen, che dopo aver lasciato la sua società, Bayer Leverkusen, e la Germania, è andata ad allenarsi nel Progetto Oregon e ha migliorato i suoi tempi nel mezzofondo e fondo in maniera esagerata, tanto che nei 5000, pochi mesi dopo essere passata dalla Germania all’Oregon, ha abbassato il suo tempo di quasi 25 secondi! A Doha, poi, ha preso il bronzo proprio nei 5000. E anche lei mica sospettava che Salazar fosse cattivo.
Il punto è che ancora una volta, dopo tanti scandali del passato, come il caso Balco e le decine di velocisti statunitensi dichiarati dopati “dopo” la fine della carriera, come Marion Jones, cui furono ritirati gli ori dell’Olimpiade di Sydney 2000, gli Stati Uniti si ritrovano al centro di troppi sospetti sul doping. Insieme ad altre nazioni, certo, ma con l’aggravante di spacciarsi come paladini dello sport pulito.