E’ appena finita la settimana di Josè Mourinho. Lo Specialone, per chi chiama da Londra “Special One”, è un gran dritto. Ieri un mio amico mi ha detto: Mourinho è interista. Mourinho è solo “mourinhista”, caro mio. A me sta simpatico, ma dopo l’inaspettata vittoria (a cinque minuti dalla fine praticamente il Manchester United non aveva visto la palla) con la Juventus ha sbagliato a battibeccare con i tifosi. Con i tifosi non si battibecca, per lo meno non lo deve fare un professionista e non perché è “pagato anche per subire insulti” come sostiene qualche sciocco, ma perché in qualunque modo la si metta, anche con l’ironia, in questo clima incattivito, qualsiasi gesto anche quello più goliardico servirà solo per aizzare di più le menti più deboli, cioè la maggioranza di quelli che frequentano gli stadi.
In Italia, ormai ad ogni livello, non solo sportivo, si filtra tutto attraverso il tifo. L’uso della ragione evapora se discuti con un tuo avversario, potete essere ragionevoli finché volete ma nessuno dei due riconoscerà le tesi dell’altro.
Detto questo, vorrei dire due cose su Mourinho. La sua parte estemporanea è minima. Non è il mio vecchio amico Alberto Malesani, fuori di testa, che fece cinquanta metri di campo con una bottiglietta d’acqua in mano per correre ad abbracciare Crespo che aveva pareggiato per il Parma una partita contro la Juventus che più o meno è stata come quella dello United a Torino. Non fa mai (quasi) nulla casualmente, studia, si prepara. In Inghilterra si presentò al Chelsea inventandosi la storia dello “Special One”. A Milano tirò fuori la storia di “io non sono pirla”. E non lo è, per niente. Altrimenti non avrebbe portato l’ambiente calcistico, tra le grandi squadre italiane, più facile alla depressione, all’autolesionismo, all’assenza di continuità (Spaletti docet), cioè quello dell’Inter, al Tris d’Oro del 2010. Mourinho è riuscito a contenere la follia nerazzurra (Pazza Inter amala), l’ha contingentata. In quell’anno magico, anche quando sono arrivate sconfitte pesanti come quella di Catania ha mantenuto saldo il timone nella tempesta. Straordinario. E non tutti si accorsero anche della grande lezione che diede alla società, sparendo nella notte di Madrid con Florentino Perez suo futuro datore di lavoro. Gli anni d’oro nerazzurri erano finiti, per tornare a vincere in tempi brevi la squadra andava smantellata, la rifondazione andava avviata immediatamente. Nessuno la colse. Lo Specialone non è mai stato un allenatore completo, non è un perfezionista come Guardiola e Sarri, non è un ossessivo come Conte, non è un ragionevole come Ancelotti. E’ un motivatore, più che insegnare canalizza l’energia dei giocatori verso un sentire comune. La squadra tende ad amarlo alla follia. Ma negli ultimi tempi il suo carisma s’è offuscato. Da Pogba e Lukaku, più di un calciatore ha avuto problemi con lui.
Abile nella dialettica, grande tecnico come dimostrano i risultati, sono curioso di vederlo nella fase della carriera in cui, esauriti Real Madrid, Chelsea o Manchester United, ti cimenti con il Napoli, insomma con un club con potenzialità che un allenatore deve valorizzare, ma senza la possibilità di sborsare 200 milioni a sessione di mercato. Come ha fatto Ancelotti. E’ un provocatore, ma quasi sempre con uno scopo. Blandisce e affonda, copre e stocca come un abile schermidore. Certo, ogni tanto anche un personaggio abilmente costruito come lui perde la pazienza, come quando aggredì un giornalista italiano a male parole e a spintoni (questi negati). Non è un simpatico naturale ma a me in fondo piace, perché ha reso la tribù del calcio, come la chiama Desmond Morris, più ricca di spunti. E sia chiaro, malgrado le sue sparate e i suoi atteggiamenti e pure se mi stesse antipatico, non si merita gli insulti che ha ricevuto a Torino. Come non li merita nessuno (ma questa è un’altra, triste storia).
PIATTO CONSIGLIATO
Un brodo di prezzemolo (lo dava sempre Gigi Magni alla squadra dopo le partite, pare che disintossichi)