Velocisti: due vittorie per Fernando Gaviria, colombiano, una per Andre Greipel, tedesco, e una per Caleb Ewan, australiano. Finisseur, quelli che precedono la volata dei velocisti: una vittoria per Lukas Postlberger, austriaco. Fughe: una vittoria per Jan Polanc, sloveno, e una per Silvan Dillier, svizzero. Quanto al primato nella generale, una rosa per Postlberger, Greipel e Gaviria, quattro per il lussemburghese Bob Jungels. Non è il record negativo – 13 tappe, dalla diciannovesima tappa del 2009 alla undicesima del 2010 -, ma la striscia è aperta e promette di spalancarsi. Perché? Ecco dieci buoni motivi.
- Perché una volta al Giro d’Italia partecipavano quasi esclusivamente corridori italiani. La prima vittoria di tappa di un corridore non italiano risale alla seconda tappa della seconda edizione, quella del 1910, merito del francese Jean-Baptiste Dortignacq; la prima maglia rosa a un corridore non italiano venne assegnata nell’edizione 1911, premio al francese Petit-Breton, pseudonimo di Lucien Mazan; e la prima vittoria finale di un corridore non italiano si celebrò nell’edizione 1950, con lo svizzero Hugo Koblet. E fu allora che Gianni Brera, direttore della Rosea, scrisse un appassionato editoriale in cui sosteneva che nello sport, e nel ciclismo, “nessuno è straniero”.
- Perché una volta il ciclismo era dominio di Italia, Francia e Belgio, più la Spagna. Ma adesso il ciclismo è dovunque, dai Paesi anglosassoni a quelli americani, dall’Africa all’Asia. E non è un caso che l’astinenza di vittorie in questo Giro colpisca non solo gli italiani, ma anche belgi, francesi e spagnoli.
- Perché il ciclismo in Italia – come mondo, come movimento, come sistema – è in crisi, e non da oggi, ma ormai da anni. Meno sponsor, meno squadre, meno corse, meno corridori. Un circolo, un cerchio, un cerchione, un ciclo vizioso. Che si cannibalizza da solo. Lo stesso Giro d’Italia, per le quattro “wild cards” di inviti a propria disposizione, alle squadre italiane (o quasi l’affiliazione, per motivi fiscali, molto spesso viene fatta all’estero) ne ha assegnate soltanto due, e le altre due squadre che se le aspettavano rischiano fortemente la sopravvivenza il prossimo anno (il Tour de France non sacrifica ma salvaguarda le squadre francesi).
- Perché i migliori corridori italiani vengono ingaggiati da squadre non italiane, e così succede che non vengano selezionati per la Corsa Rosa. Per esempio: Elia Viviani, medaglia d’oro olimpica a Rio de Janeiro nel 2016, nell’omnium, che è una prova in pista, ma capace di eccellere anche in volata su strada.
- Perché alcuni fra i migliori tecnici italiani sono assunti da squadre non italiane, così come alcuni fra i migliori massaggiatori, meccanici, autisti e addetti-stampa. Dimostrazione che la competenza degli specialisti italiani esiste sempre, ma non i mezzi per praticarla.
- Perché tesserarsi per la Federazione ciclistica italiana e organizzare corse in Italia, a qualsiasi livello, costa, costa tanto, costa troppo per società spesso condotte con passione esagerata ma con scarsi mezzi.
- Perché in Italia esiste una sola pista coperta (e un’altra si sta costruendo) (e il ciclismo su pista è propedeutico e complementare al ciclismo su strada).
- Perché in Italia c’è una frattura, una spaccatura, una divisione fra il ciclismo e la bicicletta, fra il ciclismo su strada e quello delle granfondo, dello scatto fisso, del ciclismo storico e d’epoca, perfino della mountain bike e del ciclocross, come se non si facesse tutti parte della stessa famiglia.
- Perché il fenomeno del doping, che pure il ciclismo combatte più di tutti gli altri sport, sembra aver prodotto danni irreversibili ed è comunque lontano dall’essere estinto (alla vigilia della partenza di questo Giro d’Italia, due corridori – italiani – sono stati esclusi e sospesi, in attesa delle controanalisi, per doping).
- Perché il ciclismo italiano è povero di vocazioni: gli incidenti stradali ai danni dei ciclisti sono in continuo aumento (la morte di Michele Scarponi è stata vissuta come un lutto collettivo, generale, nazionale).
La verità è che per tenere in vita il nostro ciclismo si sta facendo molto, ma non abbastanza. Prima di invertire la tendenza ci vogliono tempo, spazi, soldi. Anche vittorie. Sempre che ci si riesca. A vincere. E a invertire la tendenza.
Marco Pastonesi