A 48 anni dal primo scudetto della Lazio, è giusto ricordare la figura di un grande allenatore, che insegnava calcio e vita ad una squadra di matti, divisi in clan, ma uniti in campo – Una persona gentile con tutti, l'unico che riusciva a mettere d'accordo i nemici Chinaglia e Martini – In un bel romanzo di Angelo Carotenuto la storia di quel gruppo e del suo condottiero
A quarantott’anni dal primo, e dunque storico, scudetto della Lazio, le rievocazioni non sono mancate. Era il 1974, e il club biancoceleste fu il primo a spezzare l’egemonia della Juve bonipertiana. Un anno prima, aveva sfiorato lo scudetto da neo promossa. Una sorpresa nella serie A che in quel periodo vedeva ridursi il potere delle milanesi e crescere quello del Centro-Sud. Il Cagliari, la Fiorrentina, il Napoli, la Roma e poi la Lazio. La Lazio di Giorgio Chinaglia, il cannoniere principe, un uomo generoso e irascibile, ambizioso e contraddittorio, sicuramente un vincente.
Ma era soprattutto la Lazio di Tommaso Maestrelli, la cui figura si è ingigantita con il trascorrere del tempo: un maestro di calcio e di vita, un uomo profondamente gentile, l’unico che sia riuscito a mettere d’accordo i due clan – da un lato Chinaglia, dall’altro Martini – e a realizzare in campo il miracolo di un titolo che sembrava impossibile. Grande capacità di mediazione, grande conoscenza del football, grande abilità nell’insegnare cose semplici e nel chiedere alla squadra di osare una volta valutata la possibilità di concreta di raggiungere il traguardo massimo. Il suo era un calcio che rinnovava la tradizione italianista con un tocco di modernità: la zona mista, con marcature rigide solo in difesa, gli consentiva di ricavare il massimo dai centrocampisti ai quali chiedeva di prendere rischi, di aggiungersi agli attaccanti, di arrivare al tiro, non solo di scarificarsi per i compagni più dotati.
Maestrelli, lavorando sulla testa dei suoi calaciatori, trasformò una buona squadra in una squadra sicura di sé: “Lazio, credici!”, scandiva l’Olimpico in festa durante le partite interne. C’era, infatti, una sorta di vittimismo congenito nel tifo laziale: come se non si potesse neppure immaginare la conquista dello scudetto. Maestrelli ribaltò ogni paura con le sue parole, che non erano proclami, ma piccole lezioni di buonsenso. Non c’è cronista di quell’epoca felice e probabilmente irripetibile che non riconosca il valore tecnico e umano di questo allenatore, che aveva già ottenuto risultati di prestigio prima di approdare alla guida di una squadra di matti, raccontata con straordinaria bravura da Angelo Carotenuto nel suo romanzo “Le canaglie”, pubblicato dall’editore Sellerio, conosciuto nel mondo soprattutto per le opere di Andrea Camilleri e del suo inimitabile commissario Montalbano.
Molti anni fa, chiesi a Mimmo De Grandis, che per Paese Sera era il cantore di quello scudetto, chi fosse stato il miglior allenatore della Lazio. Bernardini? Lorenzo? Mannocci? Vinicio? Maestrelli? “Ce ne sono stati tanti, alcuni bravissimi. Ma come Maestrelli, nessuno. Non lo dico per lo scudetto, lo dico perché ho lavorato al suo fianco, ha insegnato molto a tutti noi, non ha mai discusso un giudizio né un voto, se non condivideva una critica ti chiamava in disparte e ti diceva la sua, quasi per aiutarti a valutare meglio le situazioni in futuro. E non gli ho mai sentito scaricare su un giocatore la responsabilità di una sconfitta. Va anche detto che in quegli anni la Lazio perdeva poche partite”.
Anche nel libro di Carotenuto, tutte le qualità di Maestrelli emergono con chiarezza. Sulla copertina c’è una foto quasi surreale: ritrae Chinaglia, al di fuori dello spogliatori di Tor di Quinto – dove la Lazio si allenava prima che nascesse a Formello il suo centro soportivo – mentre imbraccia un fucile. Un fucile autentico. Tra gli scherzi pericolosissimi che andavano di moda c’era anche quello di sparare al pallone. E talvolta, dice la leggenda, il pallone veniva collocato tra le gambe di un compagno di squadra. Insomma, per domare gente che era capace di questo ed altro occorreva una persona speciale, che con la propria umanità sapeva spiegare, discutere, convincere, senza alzare la voce. Con qualche eccezione, perché non era un santo. E non poteva sopportare quel genere di scherzi.