Ettore Messina è tornato in Italia, come allenatore e presidente delle operazioni cestistiche dell’Olimpia Milano. E’ una grande cosa, per tutti quelli che amano la pallacanestro. Non solo perché Ettore è l’allenatore più vincente del basket italiano con 4 titoli continentali conquistati, 28 competizioni per club in bacheca più l’argento europeo con l’Italia nel 1997 e un diploma onorifico che lo pone a diritto nella storia del gioco: è stato il primo tecnico non americano a dirigere da capo allenatore una squadra Nba in partita. Bazzecole rispetto all’uomo, alla persona, alla cultura, alla visione. Spero che il basket italiano, così rancoroso e invidioso, capisca che uno come Messina va fatto parlare tanto anche di cose molto scomode e va ascoltato con grande attenzione per non lasciare che il suo ritorno vada a beneficio solo della sua nuova squadra, ma di tutto il movimento.
All’Olimpia porterà quello che non ha avuto negli ultimi anni, una visione realmente internazionale, anche nei piccoli gesti quotidiani e non solo a parole prima delle precipitose marce indietro sui veri obbiettivi della stagione che, dopo aver perso il resto, diventavano il solo scudetto. Vi dico la verità, io credo nella dialettica non nel comandante solitario, non mi affascina il ruolo di allenatore manager tipo Premier League che Messina incarnerà a Milano. Penso che avere al fianco un grande g.m. con poteri forti sia meglio per ogni grande allenatore e nei suoi rapporti con la squadra e la proprietà ed eviti che le scelte tecniche anche legittime diventino antitetiche con il futuro tecnico e economico del club (ogni riferimento a Amedeo Della Valle non è né puro né casuale) minando poi il rapporto fiduciario. Non è questione di capacità ma, appunto, di dialettica. E poi, banalmente, in certe situazioni critiche all’interno di una squadra, le cose funzionano meglio se non è l’allenatore a metterci la faccia.
Un grande allenatore italiano torna in Italia e in Italia trova un nuovo grande allenatore… Non so se Gianmarco Pozzecco vincerà lo scudetto. Ma per quello che voglio dire, che batta Venezia o meno non fa alcuna differenza. Posso sbilanciarmi un po’ troppo? Pozzecco allenatore sta cambiando la pallacanestro che si gioca in Italia. Vi chiedete se stiamo parlando dello stesso Poz? Quello che si strappa le camicie in campo, che ha la torcida di Formentera che lo segue nei palazzetti con cappelli di paglia e infradito, che impone ai giocatori di non tornare a casa dopo una partita prima delle otto della mattina successiva? Sì, proprio lui. Per capire il suo amore e la conoscenza profondissima del gioco, basta parlare con lui cinque minuti. Ma non era assolutamente scontato che riuscisse a trasmettere questi valori ai giocatori che allena, a far guardare altre il personaggio virale, simpatico ma matto. Diciamo che finora, a Varese e alla Fortitudo, non c’era riuscito compiutamente e solo chi lo aveva visto lavorare in palestra poteva supporre che nello zaino del soldato Poz si celasse la lavagnetta del grande tecnico. Sta ripercorrendo la strada aperta da Meo Sacchetti ai tempi del suo arrivo proprio a Sassari. Andando al contrario, giocando nel modo opposto di quello rappresentato dal main stream attuale basato sul tiro da tre e dall’azzeramento del centro come entità tecnica. Pozzecco s’è trovato con un grande pivot di stazza inusuale per il basket italiano, Jack Cooley, e invece di fargli fare solo tappezzeria chiedendo semplicemente blocchi senza mai dargli la palla se non per la schiacciata come impone la pallacanestro di oggi, ha riportato un pivot al centro del gioco e deciso che l’attacco della sua Dinamo parta quasi sempre dal post basso più che dal pick and roll, anche quando Cooley va in panchina. Succede così che la miglior squadra del campionato nella precisione al tiro da tre punti, cioè proprio la Dinamo, che potrebbe pensare di essere la Golden State italiana, abbia riscoperto una pallacanestro data ormai per morta.
Con Poz in panchina, Sassari ha aumentato il numero di tiri da due punti (da 41.5 a 46.3 a partita), diminuito quelli da tre (da 26.1 a 22.8) con due effetti collaterali positivi: la percentuale delle triple è salita di 5 punti fino al 44%, il numero di liberi è aumentato da 18 a 25 per partita. Bingo! Secondo me, la crescita dei tiri a maggiore percentuale e dei transiti in lunetta, sono stati il motivo fondamentale della continuità della Sassari di Pozzecco nella lunga striscia di vittorie. La pallacanestro di Pozzecco profuma di Old School Basketball che tutti invocano, a cominciare da Gregg Popovich, ma pochi mettono in pratica (Ho appena assistito alla bellissima finale Under 18 di Milano dove l’Honey Sport City di Gustavo Tonolli, sono felicissimo per lui, ha vinto il titolo tirando 34 volte da tre e 28 da due: parliamo di giovanili…). Quella di Pozzecco è una scelta coraggiosa, controcorrente, probabilmente l’unica novità tecnica da archiviare a fine stagione. Che forse farà dei seguaci, visto che funziona. Un altro aspetto normale fino a qualche anno fa ma oggi inusuale, è la gestione del roster di Poz: usa 9 giocatori, 7 oltre i 20’ a partita (le cifre sono quelle dei playoff) ma ha due leader a cui ancorare il gioco che restano in campo per 35’ a sera: Thomas e Pierre. Quindi utilizza molto la panchina, ma non in un vero platoon system, quello che oggi fa stare in campo anche i campioni meno di 30’ per gara. La sua gestione del personale nella semifinale con Milano è stata secondo me straordinaria, la sua sintonia con la partita assoluta. Poi molti temono che, prima o poi, Poz sbrocchi e si metta nei guai da solo. Spero non accada. Chi va contro le mode, sceglie la strada più, ma è così che il basket progredisce e si rinnova. Da questo punto di vista, credo che la sfida Venezia-Sassari sia una gran bella finale, perché oppone due squadre con ideologie tecniche forti, diverse e non banali.
Il fatto che non ci sia Milano ha spalancato le porte al ritorno di Ettore Messina. L’Olimpia Milano, come è sempre accaduto nell’era Armani, ha terminato il rapporto con Simone Pianigiani al termine della seconda stagione. L’unico a sopravvivere più di due campionati è stato Piero Bucchi, licenziato all’inizio del terzo. E’ dal passaggio di Mike D’Antoni a Treviso nel 1994, che un tecnico non festeggia tre anni pieni sulla panchina più scudettata d’Italia. Da allora ne sono passati 19 in 25 stagioni. Non è il miglior benvenuto che si possa dare a Messina che ha appena firmato un triennale, ma vuol essere un auspicio che d’ora in poi la squadra più titolata d’Italia cambi strada, davvero, ora che ha il migliore.