Oggi, dopo un terzo di stagione Nba, metà delle squadre che hanno conquistato i playoff nel 2018 ne sarebbero escluse. Il caso più clamoroso sono gli Houston Rockets, non certo i Cleveland Cavaliers, caduti per la seconda volta nel nulla dopo l’addio di LeBron James. E vanno mediocremente anche squadre considerate al top nelle previsioni di inizio stagione come i Boston Celtics o gli Utah Jazz. In Italia si respira la stessa aria: le conferme nei primi 8 posti della classifica rispetto ai playoff 2018 sono cinque. Con un caso ugualmente clamoroso: la finalista scudetto, Trento, ultima in classifica. Shields e Sutton come LeBron James? Il trend è interessante, anche se probabilmente non siamo di fronte alla fine di un’epoca, come accade in America con la discesa di San Antonio e Cleveland e la possibile implosione di Houston. In questa forte turbolenza italiana si è rafforzata la leadership di Milano, cosa che non si può dire di Golden State, che stanno faticando molto nel tenere il timone dritto ai vertici della Western Conference.
In questi giorni mi hanno colpito due storie che mi hanno portato a fare un paragone tra il basket italiano e la Nba. La prima riguarda l’Olimpia Milano o, meglio, i suoi investimenti. Lasciamo da parte per una volta il solito discorso polemico sullo strapotere economico dell’Olimpia in Italia… Vincenzo Di Schiavi, sulla Gazzetta, ha riportato che l’Armani quest’anno ha un budget di 25 milioni utilizzati in gran parte per pagare gli stipendi e le relative tasse dei giocatori e dello staff, dei quali 8 sono coperti da un intervento diretto di Armani, tre arrivano dai biglietti venduti, due da diritti televisivi e marketing. Proprio la scorsa settimana, Benedetto Giardina sul Sole 24 Ore aveva invece indicato i milioni messi a bilancio da Armani nel 2017 per la squadra di basket in 14, quasi il doppio rispetto a quelli indicati dalla Gazzetta. La differenza, per quanto rilevante, è secondaria per la mia riflessione. Per pura curiosità, a parità di campioni, ho paragonato la struttura degli introiti dell’Olimpia con quelli di Golden State. I Warriors (i dati sono del febbraio 2018), pur avendo solo il terzo monte stipendi quest’anno dietro a Miami e Oklahoma City, aveva a bilancio 119 milioni pagati per gli stipendi e 143 di incasso dalla vendita dei biglietti e gli skybox aziendali. Con un guadagno complessivo di 120 milioni lordi (mentre i soldi di Armani vanno a coprire tutte le perdite).
Se la cosa più importante è che Armani si ritenga soddisfatto del ritorno pubblicitario del basket a fronte dell’investimento fatto con la sua azienda, è del tutto evidente che i club europei hanno la necessità sempre più impellente di trovare risorse dalla propria attività (arene e diritti tv) almeno per pareggiare i costi tecnici della squadra: il problema dei nostri club non è quanto spendono ma quanto poco incassano. Ed è lì che dovrebbero concentrare tutti gli sforzi. Il Sole metteva in evidenza che i 14 milioni a bilancio da Armani sono superiori ai 13 e rotti che rappresentano gli incassi totali delle 16 squadre di serie A. Il signor Armani da solo paga di più per il basket di tutti gli spettatori di una stagione della LBA. A parte fargli un monumento in tutti i palazzetti, la cosa messa così è scioccante. Seconda storia. Che, secondo me, dipinge i tempi che viviamo meglio di molte altre. I Chicago Bulls ultimi in classifica hanno licenziato coach Fred Hoiberg promuovendo il vice Jim Boylen.
Assistente per una vita, anche di Greg Popovich ai San Antonio Spurs. Che al lassismo della situazione ha opposto metodi da Marines, allenamenti durissimi di due ore e mezza, comprese flessioni punitive sulle braccia, abolizione del giorno di riposo dopo una disfatta coi Boston Celtics, venuta in un back to back, cioè due partite in due giorni: mai una squadra Nba aveva osato tanto… I giocatori più forti, molti dei quali giovani (Zach Lavine, Jabari Parker, Bobby Portis hanno 23 anni, Lauri Markkanen, a lungo infortunato, solo 21) si sono praticamente ammutinati prima di passare una giornata di riunione con il club e l’allenatore per cercare una soluzione e creare un comitatone per portare le richieste della squadra al tecnico. Non c’è più spazio per i sergenti di ferro nella Nba, soprattutto con giocatori sempre più giovani e sempre più pagati (giustamente, vedi sopra il bilancio dei Warriors). Né ha aiutato Boylen spiegare che ha cambiato due volte tutti i cinque giocatori in campo per scarso rendimento, perché lo fa anche Popovich. Lui non lo è… Allenare è diventato sempre più difficile e certamente c’è sempre meno spazio per allenatori “duri”. Anche Popovich ha ammesso di essersi addolcito dopo il ritiro di Tim Duncan, probabilmente perché consapevole di aver perso il suo più grande e prestigioso alleato in campo. In Italia sta facendo meraviglie Attilio Caja, con Varese, non solo per i risultati ma per la qualità del gioco espresso dalla sua squadra. Caja è unanimemente considerato un duro old school.
Da come gioca la sua squadra, è più che evidente che i giocatori sono con lui. Peraltro, sta andando ugualmente bene, ad alto livello e con una squadra partita per salvarsi, Meo Sacchetti, il più players’ coach della serie A. La differenza la fa, sempre, non tanto lo stile dell’allenatore quanto la maturità della squadra che allena, nel capire che spesso la medicina migliore è la più cattiva o, al contrario, nel non approfittarsi della responsabilizzazione assoluta ricevuta dal coach. Il basket ha creato la sua storia su miti “cattivi” come Bobby Knight, e secondo me non ha troppo senso oggi fare del revisionismo sulla sua grandezza, alla luce degli episodi spiacevoli che hanno caratterizzato la sua carriera. E’ la sensibilità delle persone che è cambiata, soprattutto dei più giovani. Io credo che se un allenatore non offende, umilia e, ovviamente, non alza le mani, tutto sia lecito. La Nba ci dice che non è così, che fare allenamenti punitivi per una squadra ultima in classifica non è più possibile. Che obbligare una squadra a una seduta video, di notte, dopo una sconfitta non si può. Forse è solo la conseguenza di aver creato un grande business del quale i giocatori sono il motore dei guadagni di tutti, allenatori compresi. Vero che Michael Jordan, ogni mattina, organizzava il breakfast club con Ron Harper e Scottie Pippen nella sua palestra privata, per migliorare la condizione atletica ben oltre gli impegni contrattuali con i Bulls.
Ma sono passati 20 anni… In Europa che il basket un business non è soprattutto ad altissimo livello (le perdite di Real Madrid o Fenerbahce vanno ben oltre i milioni spesi da Armani per pareggiare il bilancio dell’Olimpia) forse il cambiamento non sarà così rapido, ma intanto anche da noi una generazione di tecnici preparatissimi, conosciuti per essere molto esigenti, non ha posto in A ma solo in A-2 o addirittura serie B. Morale: la vedo sempre più dura per i duri della panchina. Bene, male? Chissà…
[…] Fonte: sportsenators.it a cura di Luca Chiabotti […]