La prima a vincere il campionato nazionale (nel 1898) e la prima a fregiarsi dello scudetto (nel 1924, e da allora – sarà una maledizione? – l’impresa non è più riuscita). La prima a istituire il settore giovanile (nel 1902: ragazzi sotto i 16 anni), disputare e vincere una partita all’estero (nel 1903 a Nizza, Nizza-Genoa 0-3), avere al seguito – con la Juventus – un treno speciale di tifosi in occasione di una partita (nel 1906 a Milano: Genoa-Juventus 0-2) e organizzare una nave di tifosi al seguito della squadra (da Genova a Savona nel 1922). La prima ad assumere un allenatore professionista (William Garbutt nel 1912) e un giocatore professionista (John Grant nel 1912). La prima a segnare 16 gol in trasferta a una squadra avversaria (Acqui) in serie A (nel 1914), subire il minor numero di gol (13) nei campionati di serie B a 20 squadre (nel 1988-89), vincere un campionato (28 partite) senza subire sconfitte (nel 1922-23), giocare in Argentina e Uruguay (nel 1923), partecipare – con la Juventus – a una competizione europea (la Coppa Europa Centrale nel 1929) e vincere la Coppa delle Alpi (nel 1962). La prima ad adottare come modulo di gioco il sistema (nel 1939, l’allenatore era Ottavio Barbieri), schierare un giocatore giapponese (Kazuyoshi Miura nel 1994) e tunisini (Badra, Bouzaiene, Gabsi e Mhadhebi nel 2001). Ma non è finita, perché non finirà mai di stupire. Anche in questa stagione il Genoa è riuscito a stabilire nuovi record: il più giovane giocatore della serie A (Pietro Pellegri, che ha esordito a 15 anni e 280 giorni), ma anche il maggiore numero di giocatori cambiati negli ultimi cinque anni (dal marzo 2012 al marzo 2017: 137, una media di 27,4 a stagione).
Il Genoa – e lo dimostrano i suoi record – non è solo una squadra di calcio. E’ una divina commedia maledettamente umana: poco paradiso, molto purgatorio, qualche inferno. Come questo girone dantesco di ritorno, che dal 5-0 subito a Pescara ha inflitto solo stress (Genoa-Bologna 1-1, ma il pareggio ottenuto nel recupero finale), sofferenze (Genoa-Sampdoria 0-1), pene (Milan-Genoa 1-0), umiliazioni (Genoa-Atalanta 0-5), castighi (Udinese-Genoa 3-0) e un solo giorno di ricreazione (Empoli-Genoa 0-2). E ha riscritto vecchie storie già vissute: esonerato il nuovo allenatore, Andrea Mandorlini, ripreso il precedente, Ivan Juric, ancora sette partite per non retrocedere in serie B. Non facili: Lazio, Chievo, Inter e Torino in casa, Juve, Palermo e Roma fuori.
Genoani si nasce, non si diventa, non si può diventare. Chi può mai scegliere, coscientemente, consapevolmente, di tenere a una squadra così prodiga di dispiaceri (anche se, nella ultracentenaria storia del club, c’è stato anche il centravanti Piaceri: Giampaolo Piaceri, 22 partite e quattro gol nel 1963-64), punizioni (non dal limite, ma al limite della tolleranza), guai (anche giudiziari, come la recentissima squalifica di 18 mesi, più multa di 50 mila euro, ad Armando Izzo, il migliore dei suoi difensori, per omessa denuncia di due partite combinate quando giocava per l’Avellino). Chi può mai ringraziare un presidente che ogni estate, non solo, ma anche ogni inverno, vende i giocatori migliori (nel mercato di gennaio ha liquidato Tomas Rincon alla Juventus, Leonardo Pavoletti al Napoli e Lucas Ocampos al Milan, fratturando la solidità della squadra), ma anche una tifoseria capace di contestare allenatori come Osvaldo Bagnoli (che portò il Genoa al quarto posto nel 1990-91 e lo guidò in Coppa Uefa nel 1991-92 quando espugnò l’Anfield del Liverpool) e Gian Piero Gasperini (che, come spiegano i tifosi più obiettivi, “riesce a far giocare bene anche i morti”). Chi può mai perdonare una partita scellerata come quella di questo campionato, in casa, con il Palermo, quando fino a una ventina di minuti dalla fine, il risultato era in cassaforte (3-1), poi si è scelta l’apocalisse: 3-2 al 69’, 3-3 all’88’, 3-4 all’89’. Molli come panisse (la panissa è un piatto ligure, povero ma nutriente: farinata di ceci, senza – si risparmia – olio di oliva). E una partita al di sotto di qualsiasi sospetto.
Ma il Genoa è il Genoa più di quanto la Juve sia la Juve o il Napoli sia il Napoli. Il Genoa è il Genoa. E’ il Genoa di Franco Scoglio, il Professore, che sospettava che Gesù Cristo fosse genoano. Non alludeva al soprannome – Figlio di Dio – regalato al genoano Renzo De Vecchi dai tifosi – era il 1920 e su di lì -, certi che così divinamente si potesse giocare soltanto in paradiso. Forse Scoglio pensava più alla passione e al sacrificio, che gemellavano il Calvario e la Gradinata Nord, due luoghi fatali. O forse si riferiva a certi aspetti religiosi – preghiere, fede, miracoli, ma anche peccati e sacrilegi, e conseguenti espiazioni e persecuzioni – che sembrano poter legare la Famiglia celeste a quella rossoblù.
Il Genoa è il Genoa di Sandro Pertini e Frank Sinatra, Vittorio Gassman e Gianni Brera, è il Genoa di Fabrizio De André che a Gianni Minà, cimentatosi in “Creuza de ma’”, disse che l’aveva cantata “come un sampdoriano”, è il Genoa dello striscione “Doriane tranquille, Pato non parla” a proposito del coinvolgimento di Aguilera nel reato di favoreggiamento della prostituzione, è il Genoa della scritta lapidaria (su un muretto al porticciolo di Nervi, e poi titolo di un libro di Alberto Isola) “Più mi tradisci più ti amo”. Il Genoa è il Genoa di quel “sei genoano e vuoi anche vincere?” – una filosofia tatuata in Gradinata Nord – che significa un’appartenenza e una sofferenza che non ammettono altri privilegi, lussi, fortune.
E questo sabato, Genoa-Lazio. Previste dose industriali di sofferenza.
Marco Pastonesi