La libertà, e di conseguenza la libera concorrenza in un sistema competitivo, è uno dei valori fondanti degli Stati Uniti. Lo è come e più del diritto all’uguaglianza o della ricerca della felicità, citata nell’articolo 1 della Costituzione. Lo è in economia e lo è sicuramente nello sport, se pensiamo che in NBA le franchigie spuntano e traslocano seguendo la scia degli investimenti. Ma quando sono i sauditi a sbucare da fuori e fondare un campionato di golf alternativo, scippando al Tour americano (PGA) alcuni dei nomi più altisonanti dei green, è allora che diventa evidente il lato più ingovernabile di quel principio.
Dopo mesi di critiche, conferme e smentite, la Superlega di golf è diventata realtàin un pomeriggio di metà giugno, quando è andato in scena il primo torneo del circuito separatista finanziato dagli arabi (LIV Tour) al Centurion Club di Londra. Dietro all’operazione, c’è il fondo sovrano dell’Arabia Saudita PIF (lo stesso che ha acquistato una quota di controllo dell’80% del Newcastle) che dagli anni ’70 accumula i ricavi della vendita di petrolio e ora ha un valore stimato intorno ai 430 miliardi di dollari. Questa gigantesca cascata a nove zeri si è riversata sul mondo dello sport, con investimenti stellari in calcio, F1, wrestling, ippica e golf appunto. Una disciplina che, tra l’altro, non piange certo miseria, ma anzi naviga in micro habitat privilegiato: per intenderci, nell’ultima edizione il Masters di Augusta (l’evento di golf più noto e prestigioso al mondo) ha messo in palio un montepremi di 15 milioni di dollari. Mica briciole.
Ma se il Tour americano è ricco, quello dei sauditi lo è molto di più: il montepremi complessivo degli 8 tornei che formano il LIV è di 255 milioni di dollari (31 milioni a tappa, il doppio del Masters), con il vincitore del primo evento andato in scena al Centurion Club – il sudafricano CharlSchwartzel – che si è messo in tasca 88mila dollari a buca. Non c’è dunque da sorprendersi se alcuni totem dei green come Phil Mickelson (200 milioni di ingaggio), Dustin Johnson (125 milioni), BrysonDeChambeau o Patrick Reed abbiano aderito alla nuova e facoltosa creatura insieme a un’altra ventina di colleghi meno noti (tutti immediatamente sospesi dal PGA americano). A dispetto dei tabù che accompagnano l’opportunismo economico, non c’è nulla di scorretto nel saltare sulla barca di un datore di lavoro più generoso. Soprattutto nel golf, sport individualista per eccellenza, dove l’atleta non è bandiera di nessuno (fuorchè di se stesso) e non è sentimentalmente legato a compagni o tifoserie. Si tratta di liberi professionisti che, con la calcolatrice in mano, decidono di scegliere dove e per chi giocare. Troppo materialisti? Può darsi. Cinici e ingordi? Forse. Ma, fin qui, tutto rientra nel campo del lecito e dell’umanamente comprensibile.
Quando però si parla dei dollari delle Superlega di golf, bisogna aggiungere al discorso un gigantesco asterisco. La montagna di soldi sui cui si stanno sedendo i vari Sergio Garcia, Ian Poulter, Lee Westwood (oltre ai già citati Mickelson e Johnson) è di sicura provenienza (c’è il petrolio dietro) ma di dubbia finalità. Dietro alla creazione della Lega, infatti, ci sarebbe da parte dei sauditi l’ennesima operazione di “sportwashing” che, fondamentalmente, significa cercare di ripulire la propria immagine attraverso la creazione di grandi eventi di intrattenimento, in modo che le persone associno il paese in questione a momenti di divertimento, piuttosto che a fatti sconvenienti che accadono all’interno. La lista dei peccati dell’Arabia Saudita, peraltro, è parecchio lunga e la rivista Golf Digest (la Bibbia del golf negli Stati Uniti) l’ha pubblicata per intero, facendo appello alle coscienze dei “disertori” e sostenendo senza mezzi termini la causa del Pga Tour: si tratta di omicidi illegali, esecuzioni per reati non violenti, sparizioni forzate, trattamento disumano di prigionieri detenuti nelle carceri governative, gravi restrizioni alla libertà di espressione, repressione dei diritti delle donne e degli omosessuali.
Capita così che, in conferenza stampa, i “ribelli” del LIV tour, di solito impegnati a spiegare colpi e strategie, siano costretti a rispondere a domande su Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso da agenti del governo saudita. O che siano chiamati a commentare la lettera scritta dai familiari delle vittime dell’11 settembre sull’opportunità o meno di aderire all’iniziative di un Paese arabo. Risposte in ordine sparso: Ian Poulter ha scansato ogni tentativo di trabocchetto (compresa la domanda “E se dietro il nuovo tour ci fosse stato Vladimir Putin cosa avresti fatto”?), Phil Mickleson ha scelto la via della diplomazia (“Sono riconoscente al PGA Tour e quanto fatto sul circuito americano lo porterò sempre dentro di me”), Lee Westwood ha controbattuto con un solido realismo (“E’ il mio lavoro e lo faccio per soldi. Se arriva qualcuno e mi offre l’opportunità di migliorare il mio status economico, lo prendo seriamente in considerazione”), mentre Dustin Johnson si è solo coperto di ridicolo affermando di aver scelto il LIV Tour “per il bene della famiglia”, come se lui (Paperone tra Paperoni) e la moglie Paulina Gretzky (figliadella leggenda dell’hockey su ghiaccio WayneGretzky) avessero davvero problemi a mettere insieme pranzo e cena, a differenza di tante famiglie, americane e non.
A differenza del calcio, la creazione della Superlega araba di golf non ha provocato alcuna sommossa popolare, ma una bufera mediatica (quella sì) che continua a tenere banco soprattutto negli States e nel Regno Unito. E’ giusto accettare ingaggi e montepremi che arrivano dalle tasche di un Paese insensibile ai diritti umani più basilari? Di sicuro, non è la prima volta che lo sport si trova messo spalle al muro da questi interrogativi. Era già capitato per le Olimpiadi in Cina e per i mondali di calcio del Qatar, con l’ipotesi di boicottaggio che, però, è velocemente tramontata in entrambi i casi.
Anche nel golf, il dilemma etico rischia di passare presto in secondo piano: la Superlega è ormai un dato di fatto e il punto, ora, è se possa far bene o male all’evoluzione di questo sport. Anche perchè gli organizzatori del LIV (il Ceo è l’ex numero al mondo Greg Norman, conosciuto come “lo squalo bianco”) vogliono dare un imprinting del tutto nuovo al gioco. Innanzitutto, si gareggia su 3 giri (e non su 4), non è previsto il “cut” (ovvero il taglio a metà gara che separa i migliori dai peggiori), si gioca (anche) a squadre e il posto è assicurato dall’ingaggio più che dal merito sportivo. La cornice delle competizioni, poi, è estremamente pop rispetto agli standard del golf. A Londra i giocatori sono arrivati sul campo a bordo dei tipici taxi neri, mentre in cielo volteggiava il The Bladesaerobatic team, Frecce Tricolori in versione ridotta. Il commento della prima tappa del tour è stato affidato a un telecronista della Premier League, Arlo White, voce conosciuta ma non quotata nel mondo del golf. In campo, un diluvio di telecamere (50) e microfoni, piazzati addosso a giocatori e caddie mentre nella tenda del Metaverso si sono alternate esibizioni di E-sports e realtà virtuale. Infine musica, con un ricchissimo dj set. L’impressione, in sostanza, è quella di un vasto e rumoroso circo che ha fatto impallidire i tradizionalisti. Il pericolo è che il grande baraccone possa condurre il golf lontano dalle sue regole consolidate ma soprattutto dalla sua autentica natura di sport che predilige l’etichetta, il bon ton, la tradizione, il silenzio persino. Del resto, non può essere un caso se il leggendario Bobby Jones (unico vincitore del Grande Slam nel 1930) abbia deciso di creare il course dell’Augusta National proprio allo scopo di allontanarsi dal palcoscenico dei grandi tornei (troppo stressante e invasivo) e avere un campo a disposizione tutto per sè, dove divertirsi con una manciata di amici, nella quiete più totale.
Oltre alla frantumazione sportiva (tra PGA e LIV), è proprio questo l’altro grande scisma provocato dalla Superlega araba: da un lato, il monolitico establishment che guarda al passato e alle tradizioni e che, in sostanza, vuole che il golf continui ad andare avanti esattamente così com’è. Dall’altro, la frangia eversiva proiettata al futuro, dove la parola golf fa sempre più rima con show e business. Non più di dodici mesi fa, il mondo dei green si spaccava su ben altra questione: la deriva atletico-scientifica imposta da giocatori come BrysonDeChambeau che, con la potenza del suo drive e delle sue formule matematiche, rischiava di annullare la componente artistica e perfino poetica del gioco. Oggi, le priorità sono decisamente cambiate e il futuro di questo sport ruota attorno ad altri tipi di interrogativi: e se alla fine prevalesse il modello saudita? Se il LIV Golf si imponesse come format vincente?
Premesso che (per chi sa coglierne la lezione), la libera concorrenza può aiutare ad evolvere, a migliorarsi, ad affinare le armi, a limare i difetti, è davvero prematuro pronunciarsi ora in termini entusiasti o disfattisti sul nuovo corso del golf. Molto, peraltro, dipenderà da quanti altri big dei green si faranno tentare dal nuovo progetto, ricordando che, al momento, tra i primi 20 giocatori al mondo solo Dustin Johnson (numero 16 della classifica) ha abbandonato il PGA Tour per il LIV Tour. In sostanza, il nuovo circuito raccoglie sì nomi altisonanti, ma di golfisti in declino o a fine carriera ed è, tecnicamente parlando, di livello estremamente inferiore rispetto al PGA che continua a mettere insieme – almeno per ora – il gotha del golf (Justin Thomas, RoryMcIlroy, Jordan Spieth, ScottieScheffler, CollinMorikawa sono rimasti sul Tour americano).
Ma a contare ancora di più sulla vicenda sarà la presa di posizione dei 4 Major (Augusta Masters, Us Open, PGA Championship, Open Championship o British Open come lo chiamano in America). Il PGA Tour (e il suo commissionerJayMonahan) hanno mostrato il pugno duro contro i giocatori che sono scesi in campo al Centurion Golf di Londra per il primo evento del LIV Golf: sospesi automaticamente da qualsiasi torneo del PGA Tour, rimossi dalla classifica a punti della FedEx Cup e di fatto non più selezionabili per la PresidentsCup e la RyderCup (con l’edizione romana del 2023 che rischia di essere penalizzata da questo terremoto). Nessuna comunicazione ufficiale, invece, è arrivata per l’appunto dai 4 tornei maggiori che sono governati da quattro entità diverse (l’Augusta National per il The Masters, la USGA per lo US Open, l’R&A per l’Open Championship e la PGA of America per il PGA Championship); realtà separate che hanno il potere di prendere decisioni autonome (anche in contrasto tra loro) e indirizzare la vicenda in maniera decisiva. Perchè se un golfista può accettare di essere bandito dagli eventi del PGA Tour (questione comunque da tribunale), non può invece rinunciare al sogno di indossare la Giacca Verde del Masters o di sollevare la mitica ClaretJug dell’Open Championship. Negare ai disertori l’accesso ai Major (e quindi ai libri di storia) è il solo antidoto al potere dei soldi, l’unico in grado di salvare il PGA, sempre che i Major si dimostrino disposti a tendere una mano al tour americano (ipotesi tutta da verificare, visto che all’ultimo US Open – andato in scena nel weekend al The Country Club – fedelissimi e “secessionisti” del green sono scesi in campo l’uno accanto all’altro).
Gloria vs ricchezza, la partita si gioca qui: i vari Spieth, McIlroy, Thomas, Scheffler, Morikawa, giovani e baldanti tapini che di milioni ne hanno già fatti a palate, vogliono entrare negli annali. Vogliono abbattere i record. Vogliono vedere il loro nome affiancato a quelli di Jack Nicklaus, Ben Hogan, Sam Snead, Arnold Palmer. Vogliono, in definitiva, quello che vogliono tutti i grandi assi dello sport: essere riconosciuti come i migliori e non come i più ricchi. Lo sa bene Tiger Woods che dall’alto dei suoi 15 Major si è permesso di declinare l’offerta degli arabi da 1 miliardo (leggasi 1 miliardo) di dollari. Molto si è discusso sul gran rifiuto del re dei green, tornato in campo contro ogni pronostico dopo l’incidente d’auto del febbraio 2021 che gli è quasi costato una gamba (e la vita). In realtà, il format del LIV Tour (appena 8 tornei, 3 giri di gara anziché 4) sarebbe estremamente vantaggioso per il campione americano, limitando il suo impegno sulla singola gara e sulla stagione. Perché dunque dare picche, peraltro senza spiegazioni?
Se Tiger ha alzato un muro di fronte a quel cachet stellare, non è solo perché storce in naso all’idea di vedere la sua immagine legata ai sauditi o perché “crede nei Major, nei grandi eventi, nei paragoni con la storia e i suoi giocatori” (parole rilasciate alla stampa solo qualche mese fa). Ma perchè ha un senso profondo della sua identità, fatta di lealtà e rispetto. Non dobbiamo infatti dimenticare che il golfista più conosciuto al mondo è figlio di un militare (il papà era ufficiale di fanteria in Vietnam), è stato allevato seguendo una rigida disciplina e, per sua stessa volontà, ha partecipato all’addestramento seguito dai corpi speciali americani, nonostante il parere contrario del suo coach. In sostanza, Woods si riconosce in tutto e per tutto nelle istituzioni degli Stati Uniti e sente un forte debito di riconoscenza nei confronti di un circuito grazie al quale ha acquisito fama e ricchezza: è in quell’organizzazione, è in quel Tour che ha vissuto tutta la sua carriera diventando quello che è, un’icona globale del golf. Anche il mitico Jack Nicklaus (il golfista più titolato di sempre con i suoi 18 Major, 3 più di Tiger) è stato contattato dagli arabi (non per giocare, avendo superato la soglia degli 80 anni, ma come uomo immagine), pronti a mettere sul piatto un compenso da 100 milioni di dollari (non quanto Tiger, ma nemmeno un rimborso spese). E pure lui si è negato per motivi analoghi, avendo contribuito a far nascere il PGA Tour con il compianto Arnold Palmer: come potrebbe andare contro un’organizzazione che è stata tutta la sua vita? In un contesto di milioni e di milionari (perchè di tutti Paperoni stiamo parlando), rinunciare ad altri soldi in nome di un’identità, di una storia, di una tradizione è tutto sommato un bel segnale. Ed è, senza dubbio, un prezioso endorsement per il PGA che nel frattempo continua a vagliare tutte le soluzioni per difendere la sua storia quasi centenaria (anno di fondazione 1929) e la sua stessa esistenza.
Il braccio di ferro con i golfisti che hanno deciso di aderire alla Superlega araba finirà in tribunale, e il tour americano non parte affatto favorito al tavolo della giustizia: l’abbattimento dei monopoli e l’esistenza della concorrenza stanno alla base del libero mercato. Come ha dichiarato a gran voce GraemeMcDowell (uno dei 20 messi al bando) “un libero professionista deve avere il diritto di giocare dove gli pare e piace”. Ed è così che anche una delle più potenti organizzazioni sportive a livello globale, come il PGA, rischia di rimanere stritolato da uno dei pilastri della stessa società americana. “Non ce la fai? Benvenuto negli Stati Uniti”, è il monito che risuona in Winning Time, serie televisiva che racconta l’ascesa della dinastia dei Lakers (si parla di basket); in quella battuta c’è tutta la ferocia del lato B del sogno a stelle e strisce. Se hai meno risorse, meno idee, meno disponibilità della concorrenza sei destinato a perdere la battaglia darwiniana per la sopravvivenza. E la solitudine del “loser” potrebbe venire a bussarti alla porta. Come mai il PGA avrebbe osato immaginare.
Valentina Buzzi